lunedì 14 marzo 2016

La minorenzia

Roberto Speranza: «Renzi è una risorsa» (02/09/2013)
Goffredo Bettini: «Renzi è una risorsa» (04/07/2013)
Erika D’Adda: «Renzi è una risorsa» (04/05/2013)
Massimo D’Alema: «Renzi è una risorsa» (20/07/2013)
Rosy Bindi: «Renzi è una risorsa» (20/02/2013)
Pierluigi Bersani: «Renzi è una risorsa» (03/12/2012)
Guglielmo Epifani: «Renzi è una risorsa» (20/07/2013)

La minoranza dem che fa? «Si costerna, s'indigna, s'impegna; poi getta la spugna con gran dignità» risponderebbe con proverbiale schiettezza poetica Fabrizio De Andrè.
Vista la sua regolare cadenza, il copione delle polemiche interne al Partito Democratico meriterebbe quasi di essere postulato nei regolamenti parlamentari, precisamente a metà strada tra l'approvazione in Consiglio dei ministri di un qualsiasi provvedimento e il suo passaggio in Aula – ove bene che vada provvede la richiesta della fiducia a sancire la fine dei giochi e ad ordinare il perfetto allineamento di una compagine parlamentare dem che fino a qualche ora prima pareva sul punto di un fatale «rompete le righe» di volta in volta divenuto sempre più monotono e sempre meno sensazionale.

A distanza di due anni, quando su determinante impulso proprio dell'allora componente anti-renziana del Pd la Direzione votò a maggioranza bulgara un documento di benservito al governo Letta (con tanto di aperitivi ordinati per l'occasione), quale che sia la propria posizione politica appare arduo non sentire un senso di frustrazione di fronte a questo ossessivo e futile brandire di pistole scariche da parte della sempre più sparuta opposizione interna alla segreteria. Una rappresentazione oramai ridotta a risaputa farsa, un consumato gioco di prestigio di cui tutti gli spettatori conoscono il trucco. Un trucco, complice la bonaria onestà di buona parte della minoranza, talmente evidente da essere stato ripetutamente svelato: trattenere i tradizionali militanti dentro il corpaccione della carcassa cadaverica del partito, dimostrando loro che un Pd ancora vagamente immune alla pandemia neoliberale non solo sopravvive, ma potenzialmente gode ancora della possibilità nientemeno che di tornare in sella. La battaglia della minoranza, insomma, serve unicamente allo scopo di mascherare l'indole smaccatamente di destra del partito garantendogli ancora la cigolante possibilità di millantare tradizioni progressiste senza suscitare la risata generale.

Una recente foto che ritrae gli esponenti di maggior spicco della minoranza interna al Pd (fonte)


Il segretario ha solo da gongolarsi di fronte ad un contesto abilmente manovrato – specie dagli apparati mediatici – in cui la minoranza dem assurge a impacciata barricadera contro cui scaricare agilmente ogni difficoltà e in cui l'unica opposizione con qualche chance di vittoria alle elezioni è rappresentata dallo sgangherato populismo anti-euro.
«Dopo di me il diluvio», può affermare senza apparente timore di smentita il segretario Pd. «Dopo di lui il diluvio», possono ripetere gli editoriali e la minoranza interna (i primi con malcelato entusiasmo, la seconda con costruita rassegnazione) dimentichi che tale motto apparteneva al Re Sole, certo non capostipite del liberalismo democratico.

Disposti quindi ad un'opposizione di modica quantità e ad una mobilitazione antigovernativa da coito interrotto, gli esponenti della minoranza possono continuare a fregiarsi orgogliosamente di non aver «tradito la ditta» e di voler ad ogni costo arginare l'incalzare indotto della nauseabonda opposizione salviniana.
Successi di questa strategia non paiono vedersene all'orizzonte: lungi dall'erigere un corposo argine, la destra populista seguita a macinare consensi anche in versanti sociali verso cui la sinistra non si pone più in ascolto. Il popolo erroneamente convinto che quell’ascolto sarebbe giunto dal Pd disertano le urne - gonfiando lo spaventoso partito dei rassegnati - e desertificano quelle che un tempo venivano chiamate «sezioni».



Assai pochi fedeli riesce ad animare la fiaba di un Pd ove il renzismo viene raccontato come una nuvola passeggera nel cielo terso di un partito vivace e legato alla sinistra. Troppo sgualcito il sipario della (tragi)commedia di un campo progressista ove Renzi più che un incidente di percorso appare sempre più nitidamente come l’esito naturale di una dirigenza democratica da tempo disposta a tollerare con benevolenza i giudizi sprezzanti verso il partito forte, indipendente ed inclusivo. Disposta a tollerare da anni i richiami al plebiscitarismo ostile agli organi di rappresentanza come prezzo da pagare per il successo elettorale. Disposta troppo spesso con enfasi interessata a processare il Novecento (dietro l'inconsistente retorica del «moderno») evocando una società dove i rapporti di
forza sono quelli dell'Ottocento. Indulgente nei riguardi di coloro talmente accaniti nel denunciare il peggio della Prima Repubblica da condurre la battaglia assieme al peggio della Seconda Repubblica. Persino nei confronti del veleno berlusconiano, per usare le acute parole di Piero Ignazi, l'opposizione della sinistra 

«si attivava a corrente alternata: un giorno faceva la voce grossa, un altro trattava sulle frequenze televisive, un giorno gridava al golpe, un altro cedeva sul “processo giusto”. E così via. Mancava la costanza del resistere, resistere, resistere. E l'accusa di antiberlusconismo veicolata dalla destra diventava quasi uno stigma da cui difendersi. Non una onorevole connotazione etico-politica».

Il sostegno al governo Monti – col suo bagaglio culturale magistralmente riassunto da quel passaggio di un discorso di Angela Merkel secondo cui «la democrazia è accettabile solo se conforme ai voleri del mercato» - avrebbe già dovuto far cogliere quanto questa scelta fosse la pietra tombale di qualsiasi seppur pallida velleità di sensibilità egualitaria da parte del Partito Democratico, definitivamente suggellata da quel centinaio abbondante di parlamentari che scegliendo con screanzata codardia di evitare la salita di Prodi al Quirinale sancì in tal modo la propria incrollabile fedeltà al berlusconismo e sbarrò la strada non solo a qualsiasi seppur ambigua altenativa di governo, ma anche alla possibilità di un partito fondato su un’effettiva partecipazione.

Chi crede davvero nella necessità di rigettare le nefaste politiche dell'ultimo ventennio ha già avuto ampiamente modo di sperimentare che il Pd non rappresenta la propria casa, nemmeno se possiede il volto della sua imbelle minoranza. 

giovedì 10 marzo 2016

La svolta del sultano

Anno 2013. In occasione del G20 di San Pietroburgo il dominus turco Erdoğan chiede al dominus russo Putin di mettere una buona parola nelle trattative per far accedere Ankara al Gruppo di Shanghai, non prima però di aver chiesto alla compagnia cinese Cpmiec – sottoposta a sanzioni statunitensi – la costruzione del suo primo sistema di difesa antimissilistico a lungo raggio. La scelta di campo appare palese, e l’ostilità reciproca con la Casa Bianca pare suggellare la definitiva collocazione di Ankara nell’asse Russia-Cina-Iran.
La bandiera turca
 Nel giro di qualche anno il permanere della diffidenza con gli Usa non riesce però a nascondere un quadro che appare notevolmente mutato: ad esempio in occasione di un altro G20, quello di Antalya, la Turchia pensa bene di arrivare al meeting con la notizia fresca dell’annullamento del contratto con le compagnie cinesi sul sistema antimissilistico che tanto aveva scosso i partner della Nato. Nello stesso torno di tempo e nel medesimo contesto si collocano la concessione agli Stati Uniti della – corteggiata da tempo – base aerea di İncirlik, i tentativi di legittimazione agli occhi della stessa Nato, un’imbarazzante visita in Turchia di un Angela Merkel col cappello in mano, la riscossione di tre miliardi di euro generosamente elargiti dalla Ue al fine di trattenere i profughi siriani dall’attraversamento del mar Egeo, un alleggerimento del sistema dei visti per i cittadini turchi nel contesto comunitario, la ripresa dei colloqui per entrare nel novero dei paesi membri dell’Unione Europea e quotidianamente nuovi esosi tentativi di scambi (estremamente vantaggiosi per Ankara) con vari organismi occidentali.

Specialmente a partire dalle non trionfali elezioni legislative dello scorso sette giugno, pare insomma che il sultano turco intenda con accanita tenacia legarsi al campo occidentale, costringendo i riluttanti partner di tale schieramento ad assecondare le sue smanie imperialistiche e i suoi calcoli elettorali interni.
A fronte di una deludente gestione delle pratiche mediorientali che gli ha alienato peraltro buona parte del consenso del mondo arabo non meno che di quello occidentale  (secondo la Fondazione turca per gli studi economici e sociali, tra il 2011 e il 2013 i cittadini mediorientali sostenitori della politica turca sono passati dal 56 al 37%) e dopo aver incassato lo smacco di trovarsi i suoi fedeli servitori - specie della Fratellanza musulmana - perseguitati in Egitto, male armati in Libia e incapaci di spodestare al-Asad in Siria, per la Turchia inserirsi forzosamente nel campo occidentale pare essere la strada più redditizia sia dal punto di vista del consenso interno, sia dal punto di vista del perseguimento dei suoi scopi geopolitici, primo fra tutti poter bombardare con disinvoltura le forze curde al fine di esercitare un controllo sempre più efficace su fette consistenti del territorio siriano.
Una politica che può implementarsi senza troppi intoppi per la consapevolezza di trovarsi in una posizione di forza.

Il presidente turco e il presidente russo


Anzitutto la strategia del mantenimento del caos mediorientale perseguita da Obama costringe quest’ultimo a trovare qualcuno che faccia il lavoro sporco di evitare che lo Stato Islamico assuma una posizione troppo rilevante nello scacchiere mediorientale. Vista l’assoluta volontà della Casa Bianca di non spedire soldati a stelle e strisce nelle sabbie mobili mediorientali, la necessità di milizie sunnite sul campo si fa sempre più impellente per Washington, spingendo la Turchia a offrirsi come indispensabile alleato nell’operazione. Ben sapendo che le milizie curde disturbano il sonno dei dirigenti di Ankara molto di più di quanto facciano gli spietati jihadisti del Califfato, gli Usa sono
inizialmente propensi a temporeggiare di fronte a questa richiesta, prediligendo magari le stesse – più efficaci – forze curde come partner principale nell’opera di contenimento dello Stato Islamico.
I turchi dapprima impongono la propria collaborazione offrendo la base aerea di İncirlik, ma di fronte alla scusa addotta dalle forze occidentali secondo cui gli stretti rapporti di vicinanza con Mosca impediscono ad Ankara di ritenersi un alleato a pieno titolo dell’Occidente, ecco giungere la clamorosa sortita dell’abbattimento di un aereo militare del Cremlino. Con la consueta arroganza e l’abituale enfasi tracotante, la Turchia dimostra con plateale evidenza la propria fedeltà al campo occidentale, spazzando via con un colpo quasi teatrale ogni recalcitranza alla collaborazione da parte soprattutto degli Usa, ottenendo la rottura tra Washington e i combattenti curdi soprattutto dello Ypg e causando il repentino cambio di approccio di una Washington fino a qualche giorno prima considerata da Ankara troppo condiscendente nei riguardi delle operazioni russe in Siria (viste come una minaccia esistenziale per l’influenza turca nella regione).

Schema riguardo l'abbattimento del Su-24 russo da parte delle forze turche, dall'archivio del Corriere della Sera


Con un gesto tanto clamoroso quanto semplice, gli Usa sono costretti obtorto collo a vedere la Turchia come partner essenziale, chiudendo ambedue gli occhi di fronte alla disinvolta politica autoritaria (e smaccatamente anti-curda) condotta da Erdoğan e adottando una postura più dura nei confronti del dittatore siriano al-Asad.
Il jet russo abbattuto
Ma il sultano ha anche un’altra arma a disposizione da scagliare contro l’Unione Europea al fine di piegare quest’ultima ai desiderata di Ankara: una massa biblica di profughi bramosi di varcare la porta del Vecchio Continente.
Con l’inconsapevole complicità di una Germania che nel corso del solo 2015 ha accolto al proprio interno qualcosa come 1,1 milioni di profughi, la Turchia ha ben capito che l’azzardo morale di scaricare sull’Europa la massa in fuga rappresenta un formidabile strumento di pressione per spingere le istituzioni comunitarie (disposte a tutto pur di evitare una situazione di caos sul proprio territorio) a ingoiare qualsiasi rospo. Come scriveva qualche mese fa il prof.Germano Dottori:

«Per convincerci ad abbandonare al-Asad al suo destino, agevolare il trionfo dell’islam politico in Medio Oriente e farci contribuire a una sistemazione della Siria corrispondente ai suoi desideri e alle sue ambizioni, Erdoğan potrebbe aver scelto di emulare le vecchie pratiche del Colonnello Gheddafi, lasciando che ai nemici profughi siriani [in quanto curdi, ndr.] diretti a Lesbo o a Kos si aggiungano altre persone non gratae, come gli afghani e i pakistani […].
Il dato è questo: l’Europa si è trovata all’improvviso stretta in una tenaglia, controllata a un estremo dai turchi, che vogliono la testa di al-Asad» avendo «a disposizione masse di disperati con i quali gettarci nel caos».


Di fronte a queste azioni disgustosamente spregiudicate, la linea adottata dal Paese traino dell’Europa (manco a dirlo la Germania) pare essere quella di piegarsi al ricatto di Ankara conferendo anzitutto a quest’ultima denaro sonante e ricercando una difficile solidarietà europea nella distribuzione dei disperati. Nella speranza che il canto di alcune sirene nord-europee secondo cui sarebbe legittimo trasformare le nazioni mediterranee in giganteschi campi profughi (alla stregua di quanto avveniva con la Libia di Gheddafi) rimanga soltanto un'irricevibile boutade.

lunedì 22 febbraio 2016

Europa, dove vai?

«Circostanze eccezionali». Solo queste, a detta del numero uno della Commissione Europea Juncker, dovrebbero giustificare la fortificazione dei confini interni al continente europeo; e sebbene già dal 2012 è prevista la possibilità di estendere per dodici mesi la sospensione della libera circolazione, quella di Juncker fino a qualche mese fa appariva una constatazione sottintesa, e come tale era stata applicata senza sbavature in occasione di eventi per l’appunto «eccezionali» (meeting dei G7 e dei G8, giornate seguenti gli attentati terroristici, campionati di calcio, conferenze sul clima).

Un bambino che passa il confine tra Serbia e Ungheria: questa la foto dell'anno vincitrice del World Press Photo Award

Nel giro di poche settimane i confini tra eccezionalità e consuetudine hanno però iniziato a dissolversi, spingendo verso la smaniosa bramosia d’invocare altri confini. Più tangibili, più consolanti e soprattutto permanenti. Confini in grado di proteggere, grazie a cui risulta possibile rintanarsi nel proprio guscio nazionale come un feto nel sacco amniotico, coltivando come unica ossessione la risibile ma evocativa immagine mitologica della purezza di un nazionalismo attaccato da ogni versante. Immagine enfatizzata a dismisura dalla compattezza dei fronti politici interni, i quali con la massima spregiudicatezza non esitano ad abbracciare i dogmi da sempre circoscritti nello starnazzante recinto della destra estrema. Così si esprime, ad esempio, un esponente di spicco della destra costituzionale francese:

«Noi siamo un paese giudaico-cristiano – lo diceva il generale de Gaulle – di razza bianca, che accoglie persone straniere. Voglio che la Francia resti la Francia. Non voglio che la Francia diventi musulmana»,

in questo non troppo divergente dal premier slovacco Robert Fico, fiero esponente della socialdemocrazia europea giunto ad affermare il proposito di ricorrere alla Corte di giustizia europea pur d’impedire lo smistamento dei profughi nel continente in virtù degli «enormi rischi di sicurezza connessi all’immigrazione». Quando il fronte orgogliosamente nazionalista si abbandona a frasi quali: «Siamo in guerra col terrorismo. Occorre sospendere Schengen» - è il caso del vicepremier ceco Andrej Babiš – l’approccio adottato appare analogo.
Una recente cena del Consiglio europeo
Una spinta che peraltro non si arresta nemmeno nelle terre della leadership europea per antonomasia, quella Germania che vede il famigerato ministro Schäuble ammonire metaforicamente 
«uno sciatore disattento», chiaro riferimento alla Cancelliera Merkel nella sua scelta di accoglienza, dal rischio «di provocare una valanga quando si avventura sulla neve fresca».

Paura, diffidenza e calcoli elettorali paiono prevalere nettamente sulla ragionevolezza, sulla lungimiranza e sul rispetto dei valori dell’Unione Europea, certo non attinenti con la schiumante retorica belligerante quanto anzitutto sulla fiducia reciproca; la quale però sembra cedere il passo anche sul versante seguito con cura maniacale dalle autorità comunitarie: ancora nel marzo 2013 un rapporto McKinsey sosteneva che tra il 2007 e il 2012 i flussi interbancari europei hanno subito un crollo di 3,7 trilioni di dollari.
Metaforiche o concrete, le barriere che s’innalzano minacciose sui confini europei ci dicono che l’unico collante a rendere pregno di un qualche flebile significato il concetto di Unione Europea è rappresentato dalla sua peculiare struttura, che a partire dallo Statuto della Bce pare predisposta unicamente per soddisfare gli appetiti speculativi dei gruppi industriali e finanziari. Le principali sfide di questo frangente storico – a partire dai flussi migratori – vengono codardamente snobbate, lasciando ad esempio che questo magma umano rimanga alla completa mercé delle organizzazioni criminali.

Dal "Corriere della Sera" del 16/02/2016


Né la storia (recente e lontana) fornisce stimolo, monito e ispirazione alle classi dirigenti europee, se bastano un paio di maldestri attentati per far invocare al Presidente francese Hollande la necessità di «fare evolvere la nostra costituzione», col suo bagaglio di diritti e principî spesso faticosamente conquistati, al fine di renderla conforme al «terrorismo di guerra».
Perché, fatto sbollire il naturale sconcerto verso eccidi così brutali, gli attentatori che hanno depauperato e traumatizzato un intero continente non sono altro che cialtroni disadattati, la cui inetta goffaggine trapela chiaramente dalla dinamica degli eventi: gli infami che decimarono la redazione di Charlie Hebdo, nel mentre eseguivano il loro disgustoso proposito sbagliarono indirizzo, si trovarono in difficoltà a trovare il piano ove erano ubicati gli uffici del settimanale, dei due fratelli responsabili della strage uno perse una scarpa e l’altro si scordò i documenti d’identità in auto. Ambedue, comunque, non disponevano nemmeno della pur minima perspicacia per pensare ad
Ahmedi Coulibaly
un rifugio per la fuga. Che dire poi di Ahmedi Coulibaly, l’esecrabile macellaio del supermercato ebraico che a qualche giorno di distanza avrebbe invitato i suoi ostaggi a «tornare in Israele» sebbene anche i bambini sono a conoscenza che la posizione assunta dal mondo islamico è diametralmente opposta? Persino i filmati di rivendicazione dimostrano la più completa ottusità di questa ciurma omicida, dal momento che si alternano confusamente attestati di fedeltà allo Stato Islamico e ad al-Qāʻida.
Sorte forse migliore, del resto, rispetto all’imbranato attentatore di Villejuif che quattro mesi più tardi si sparò erroneamente a una coscia. Si può solo immaginare quale sia la preparazione religiosa di questi idioti: per dare un’idea basti pensare al caso dei due aspiranti combattenti che in vista della partenza da Birmingham alla volta del Califfato avevano pensato bene di ordinare su Amazon i volumi Islam for Dummies e The Koran for Dummies.
  
Specie per quanto concerne le stragi di Parigi del novembre scorso, di queste brutalità non abbiamo chiari i moventi, non conosciamo i mandanti, sappiamo solo a spanne chi siano gli esecutori materiali (dotati comunque, oltre che di scarso acume, di armamenti modesti e piani logistici semplici), persino sul vero obiettivo del Califfato le ipotesi sono molteplici. E se è vero (come molto probabile) che l’obiettivo dello Stato Islamico è quello di fomentare lo scontro tra mondo occidentale e mondo musulmano, la trappola sembra essere riuscita in pieno dal momento che nel giro di pochi giorni non solo i bombardieri francesi hanno iniziato ad operare nei cieli della Siria – sulla base peraltro di motivazioni del tutto opinabili – ma la presenza sul luogo delle stragi di un passaporto siriano, quasi sicuramente falso, ha acuito ancor di più le pulsioni xenofobe di strati consistenti della società europea.
In poche parole: una bislacca e ambigua sequenza di attentati è stata sufficiente per imprimere una netta accelerazione dell’Europa verso una regressione in tema di libertà individuali, tutele democratiche, costituzioni e utilizzo della razionalità. Quale può essere infatti l’utilità d’interventi militari proprio nel periodo in cui persino Tony Blair ammette che le azioni in Iraq sono state determinanti proprio nel favorire «la nascita dell’Is»? Hanno senso le pulsioni anti-migratorie quando il rischio di attentati proviene non da coloro che dalla Siria arrivano in Europa, ma da coloro che compiono il viaggio opposto? Si potrebbe proseguire a lungo, ma la conclusione sarebbe la stessa: o le classi dirigenti europee sono composte da citrulli demagoghi, oppure le crisi in atto sono solo un pretesto per conseguire obiettivi sociali e geopolitici serbati da tempo.

In ambedue i casi, c’è ben poco di cui rallegrarsi.

giovedì 18 febbraio 2016

Sui diritti civili la grande assente è la politica

Il ddl sui diritti omosessuali avrebbe portato l’Italia verso una maggiore maturità, ma lo spettacolo parlamentare che ci viene offerto in queste ore consegna l’immagine diametralmente opposta della più impacciata imperizia, della più superficiale incapacità, della più disarmante titubanza.

«Ci fanno o ci sono?» viene da domandarsi, ma questa volta senza ironia né retorica; al contrario caricando la domanda con la massima ponderatezza: cosa spinge la Lega Nord a lasciare inalterati cinquecento emendamenti la gran parte privi di ogni contributo al dibattito? Cosa spinge il Pd a
Monica Cirinnà (Pd), che dà il nome al ddl sulle unioni civili
premere il grilletto di una misura così pesante e foriera di discussioni come il «canguro», senza alcuna considerazione per la massima cautela che dovrebbe accompagnare il passaggio in Aula di un testo appoggiato da una maggioranza così fragile e inusuale? Cosa spinge i 5 Stelle a non chiarire mai in misura definitiva la propria effettiva posizione sul ddl e sui suoi metodi d’approvazione?


La risposta va ricercata nel convitato di pietra dell’intera discussione: il sondaggio. La politica, che in una nazione civile dovrebbe rappresentare la guida autorevole e lungimirante (assai lontani sono i tempi in cui l’Assemblea Costituente arrivava persino a dimenticare i pesanti sconvolgimenti internazionali pur di consegnare all’Italia una Carta innervata di diritti e tutele universali), occupa gran parte della sua attività ad adeguarsi alle paure, alle tendenze e ai vizi più promettenti dal punto di vista – estremamente miope – delle prossime consultazioni elettorali.

Ne esce una narrazione ormai monocorde, superficiale e intrisa di una logica populista che vede nel cleavage tra «popolo» e «casta» l’unico oggetto polemico di una campagna elettorale infinita la quale, appunto, appena si trova a doversi confrontare con temi oggettivamente divisivi, si scopre vacillante; scoperchiando come nel vaso di Pandora tutta la risibile inconsistenza di una classe politica che alla ricerca di un consenso unanime (il «partito della nazione» è una tentazione bipartisan) sceglie di non scegliere. Preferisce lanciare segnali ambigui. Si dimostra disposta ad applicare formule agli apici dell’astrusità burocratica. Si lava le mani come Ponzio Pilato, nella speranza che qualche deus-ex-machina provveda a sbrogliare la matassa o a prestarsi come capro espiatorio.



Qui, prima ancora del rifiuto della mediazione, c’è il rifiuto del conflitto: la politica si ostina a non voler farsi interprete di precisi e delineati segmenti sociali, assecondando unicamente le ataviche pulsioni anti-istituzionali (e anti-democratiche) di un popolo che privato degli spazi di partecipazione diviene troppo spesso incline a riportare in auge i più nefasti retaggi dell’oscurantismo cattolico; in questo purtroppo agevolato da apparati informativi anch’essi incapaci di assumersi un ruolo educativo (basti pensare che nei primi due anni di pontificato di Benedetto XVI il Tg1 dedicò alle gerarchie vaticane due volte e mezzo il tempo dedicato alla Presidenza della Repubblica) e, di conseguenza, ridotto al ruolo di – troppo spesso compiaciuto - consumatore passivo. «Carne da sondaggio», o peggio ancora «carne da slide» e «carne da tweet» come direbbe qualcuno.

Destinatario di bonus, mance o «redditi di cittadinanza» senza alcuna visione ma non titolare di un’attiva funzione promotrice; non depositario di diritti; non protagonista della brulicante (e intensa,
perché negarlo) vita democratica.


Se la politica s’inaridisce, la cittadinanza diviene più immatura ed esposta ad interpretare l’attività legislativa con una visione populistica (spesso autoritaria) e/o finalizzata al particulare. Se la cittadinanza non esercita effettivi controlli provvederanno altri poteri più consolidati (in primis economici) a far valere le proprie ragioni, sortendo in tal modo risultati grami per l'assetto democratico. Soprattutto dal punto di vista della perdita dei diritti sociali, ma anche (di conseguenza) per quanto riguarda la perdita dei diritti politici e non ultimi – come vediamo – in molti casi l’impossibilità di accedere ai più basilari diritti civili

lunedì 15 febbraio 2016

Quanto è amara la risata al potere

Il MoVimento 5 Stelle è una specie di armata Brancaleone in cui – sotto le insegne del più sguaiato «vaffa» - trovano conforto tutte le tradizionali polemiche anti-politiche rivisitate sotto una redditizia chiave apocalittica seguendo le collaudate regole dell’acchiappa-click più spietato.

Esempio lampante di articolo acchiappa-click fornito dalle piattaforme della Casaleggio Associati


L’anti-politica (ormai dominante su ogni versante parlamentare) rappresenta una peculiare forma di potere che permette la più ampia libertà da vincoli, opportunità politiche e spesso anche regole del più basilare bon-ton istituzionale: sfoggiando con orgoglio la propria distanza da qualsiasi prassi di controllo politico, di responsabilità democratica e di rispetto di una struttura dirigente (interna o esterna alla formazione) temi come ad esempio la contaminazione continua e quasi inscindibile tra interesse aziendale della Casaleggio Associati Spa. e scelte politiche del MoVimento risultano non solo quisquilie di poco conto ma addirittura contesti di cui farsi vanto. Trovare rifugio negli uffici milanesi di Casaleggio rappresenta infatti una valida giustificazione per affermare la totale inutilità di strumenti quali il finanziamento pubblico. Il risparmio per i cittadini è assicurato, e se questo comporta degli indubbi cedimenti nei riguardi delle pressioni dell’azienda (a questo punto depositaria del potere di vita o di morte sul MoVimento) non vi è motivo di preoccupazione dal momento che se il disprezzo verso le istituzioni rappresentative rappresenta l’unico parametro di giudizio, ogni scelta che va nella direzione opposta – sebbene lesiva per l’autonomia e il controllo democratico dei militanti – viene obbligatoriamente salutata con fervore e proposta come esempio di buona prassi politica.

Senza una struttura autonoma e priva di un autentico spazio di confronto e mediazione (che parola blasfema!) il MoVimento non poteva che andare assumendo i caratteri di un agglomerato dai contorni vaghi, ove la normale amministrazione di fronte alle incombenze dell’attività parlamentare si trovava necessariamente ad essere delegata al trascinatore delle piazze, a quel profeta del «vaffa» a
metà strada tra Masaniello e Guglielmo Giannini che risponde al nome di Beppe Grillo.
Nei primi mesi di presenza parlamentare Grillo rappresenta l’alfa e l’omega del MoVimento, non tanto per scelta consapevole quanto per essere l’unico punto di riferimento di quella compagine per lo più svogliata di elettori che si riversa a votare questo nuovo simbolo nell’azzardo (speranzoso o rassegnato) d’imprimere un punto di rottura nell’establishment politico qualunque esso sia. In questo esercito di elettori raro è lo stimolo ad una partecipazione democratica alla vita del MoVimento. Anzi, quel «vaffa» abbracciato come liberazione si rivolge anzitutto proprio verso le strutture e le garanzie che permettono l’esercizio della rappresentanza (Parlamento, partiti, sindacati anzitutto) producendo come esito il più naturale degli sviluppi: chi rifiuta di esercitare il controllo democratico crede per converso alle virtù demiurgiche del leader, e in questo caso il ruolo non poteva che essere svolto dal comico. Il comico, appunto, il cui rozzo messaggio sprezzante nei riguardi delle istituzioni rappresenta in realtà quanto di più caratteristico e «conservatore» vi possa essere per un Paese che dalla fine della Prima Repubblica conosce quasi esclusivamente una politica imperniata sulla compressione della rappresentanza democratica (non a caso il linguaggio e la retorica dei 5 Stelle vennero discretamente sostenuti dagli apparati mediatici) con la differenza quasi unica della professione svolta dal suo leader: non un politico (anche questo vocabolo blasfemo) bensì un comico.

Se la commistione tra interesse aziendale e lista politica non rappresenta di certo un inedito nella politica italiana, mai ci si sarebbe immaginati di avere la più numerosa forza politica sul territorio nazionale capeggiata da un uomo di satira. Un evidente contraddizione, dal momento che la satira rappresenta per definizione l’opposizione al potere costituito: come ci si comporta se la satira diventa potere costituito (o almeno parte di esso)? Già all’epoca del primo V-Day Daniele Luttazzi si era posto il problema affermando sulla rivista «Micromega» (correva l’anno 2007):

«Grillo si guarda bene dallo sciogliere la sua ambiguità di fondo: che non è quella di fare politica, ma quella di ergersi a leader di un movimento politico volendo continuare a fare satira. È un passo che Dario Fo non ha mai fatto. La satira è contro il potere. Contro ogni potere, anche quello della satira».

Il conflitto d’interesse diviene lampante: lo sberleffo assume significato solo se condotto dal basso verso l’alto, dall’oppresso all’oppressore, dal sottoposto al superiore. Luttazzi, del tutto ignaro di quanto sarebbe successo sette anni più tardi, proseguiva il suo intervento:

«Scegli, Beppe! Magari nascesse ufficialmente il tuo partito! I tuoi spettacoli diventerebbero a tutti gli effetti dei comizi politici e nessuno dei tuoi fan dovrebbe più pagare il biglietto d’ingresso. Oooops!»

Senza sollevare grande sdegno, in occasione delle Europee 2014 il leader in realtà avrebbe dato esatta attuazione a questo sottinteso divieto, percorrendo in lungo e in largo l’Italia e rivolgendo inviti a votare per il MoVimento esclusivamente dietro pagamento di un biglietto; per giunta iniettando nello spettatore accorto il dubbio atroce se le millanterie rovesciate in maniera torrenziale da parte di questo atipico comico andassero derubricate nell’ambito di un reale impegno elettorale oppure fossero funzionali alla scorrevolezza di uno spettacolo il cui scopo primario è (o almeno dovrebbe essere) il puro intrattenimento. 

Manifesto pubblicitario riguardante il tour di comizi a pagamento del leader 5 Stelle
A descrivere questa ambiguità ha comunque provveduto in maniera egregia un altro acuto satirico, Vauro Senesi, scrivendo una lettera a Dario Fo sulle colonne del «Fatto Quotidiano» circa il V-Day del settembre 2013:

«Nelle mie orecchie le tue parole si erano perse, coperte dagli strilli di un pagliaccio. Dovrei dire di un ex pagliaccio. Perché, a differenza di te e di me che pagliacci siamo e siamo rimasti, quel pagliaccio si è fatto capo. Il giullare che si fa re. Quando il giullare si fa re la magia della satira svanisce. Le stesse parole che dalla bocca del giullare hanno il suono triste e allegro dello sberleffo e del pernacchio, nella bocca del re assumono quello perentorio e arrogante dell’autorità. Arlecchino danza con la morte, certo, e nella sua danza c’è tutta l’ostinata e gioiosa irriverenza verso ogni forma del potere. Se invece di Arlecchino è il re che balla con la morte non c’è più l’irriverenza ed è solo una danza macabra. Non mi sono mai piaciuti i capipopolo, quelli che parlano “alla pancia della gente”. Mi piacciono ancora meno quando hanno dismesso il costume colorato di Arlecchino per indossare l’armatura cupa del condottiero infallibile».

Il «direttorio» (anche questo soltanto ratificato ma mai sottoposto al dibattito dei militanti) da un anno a questa parte pare svolgere un ruolo di supporto al leader; ma nonostante questa oscura
I parlamentari del MoVimento
investitura il carisma del comico pare ancora essere determinante per le sorti del MoVimento. Necessario anzitutto come volto da spendere mediaticamente, nel maldestro tentativo di fornire una verniciata di spensierata goliardia al click-baiting senza scrupoli della Casaleggio Associati e occultare le manovre di un MoVimento che si trova a fare i conti con molteplici ambizioni e difficoltà amministrative. Ma necessario anche per garantire una patina di «immunità» sulle parole pronunciate: senza erigere un muro divisorio tra il ruolo della satira e la dialettica politica, il comico può permettersi di dispensare diktat (talvolta umiliazioni) senza suscitare grandi clamori.


Del resto, Grillo è pur sempre un comico. O no?

giovedì 21 gennaio 2016

Quei voucher che rompono l'incantesimo



Attenendosi scrupolosamente alla vulgata espressa dagli apparati mediatici, pareva che il mondo del lavoro nell’èra di Facebook dovesse essere definitivamente riassunto in un galvanizzante corollario di vocaboli d’oltremanica. La fine del fordismo, l’estinzione delle tute imbrattate e la definitiva archiviazione dei contesti magistralmente rappresentati in «Tempi Moderni» di Chaplin dovrebbero secondo una cospicua pubblicistica consegnarci una situazione caratterizzata da lavoro «smart», ricco di stimoli, legato indissolubilmente alla conoscenza, dove il «merito» inteso come possibilità di far emergere le proprie sbalorditive capacità cognitive (e tecnologiche) fosse l’unico fattore in grado di sancire non solo il successo personale, ma anche le stesse possibilità di trovare un impiego.

Il mondo schernito da Chaplin è definitivamente concluso o si è soltanto evoluto?
Avvinghiati dai poster di Steve Jobs e ammaliati dalle slide di Bill Gates non pochi studiosi, politici ed economisti hanno provato a venderci l’immagine di un mercato ove l’elevatissimo grado di
Altro che prodigio tecnologico: il «New York Times» del
02/05/2014 affermò che
  
«se Steve Jobs fosse ancora vivo,oggi dovrebbe stare in carcere».
tecnologia in cui ci troviamo immersi fosse l’unico cardine possibile su cui imperniare la carriera, trasformando la creatività – e la competenza tecnica - nell’arma più affilata a disposizione, rendendo la fatica fisica un desueto ricordo da cartolina in bianco e nero, spacciando la «flessibilità» (di orario, di mansioni, di organizzazione) come una stimolante sfida giocata all’insegna di algoritmi da congegnare.

Il progresso tecnologico avrebbe
debellato le mansioni defatiganti - asserivano dal pulpito dei loro civettuoli «think-tanks» (ennesimo anglicismo) -, di conseguenza l’unico obiettivo perseguito dall’impresa sarebbe stato quello di ottenere personale il più possibile «smart», decisamente arricchito di «know-how», propenso al «problem solving» e chissà a quale altra peculiarità cognitiva. Dinnanzi a cotanta specializzazione, si è cercata di divulgare con una dose non irrilevante di malafede la concezione che un meccanismo così perfettamente congegnato non andasse caricato di polverosi vincoli. Se il «merito» dato dalla preparazione tecnologica è assurto al ruolo di protagonista del mercato, qualunque intralcio s’inserisca in questo contesto (in particolare quei ferrivecchi chiamati democrazie, Costituzioni, Statuti, contrattazioni collettive) va invariabilmente bollato come anacronistico sussulto anti-meritocratico. Del resto, questa la conclusione, se qualcuno non riesce ad inserirsi nel mercato vuol dire che il suo impegno è insufficiente. Il licenziamento finisce per essere considerato indubitabilmente una prova schiacciante dell’indolenza del lavoratore. La disoccupazione etichettata come tipica condizione dello scansafatiche.
L’impianto ideologico alla base dei contratti «a tutele crescenti» sostanzialmente ruota intorno a
Il giuslavorista Pietro Ichino, tra i più
solerti ad affermare che «oggi è per lo
più necessario un apprendimento
continuo e le attitudini del lavoratore, la
sua capacità di adattarsi agli shock
tecnologici richiedono sovente
molti mesi per essere valutate».
questi capisaldi, spacciati maldestramente come innovativi ma in realtà retaggio di connotazioni mentali tipiche della destra economica sin dagli inizi del XIX secolo: in particolare si afferma che per valutare l’effettiva preparazione cognitiva del neoassunto l’impresa necessiti di un periodo di rodaggio, frangente nel quale sarebbe a dir poco indiscreto imporre vincoli considerati (sulla base di mere fantasticherie) forieri di scoraggiamento per tali assunzioni. Secondo tale schema infatti l’impresa insegue un solo obiettivo: assumere persone valide. Anche soltanto abbozzare il pensiero che il periodo iniziale di lavoro possa essere adoperato anche per accertarsi della docilità del lavoratore (ossia che questi non si sogni di commettere azioni sovversive, prima fra tutte l’iscrizione a un sindacato) si finisce per essere sommariamente snobbati come figli di un atavico sospetto novecentesco superato dalla storia.

A infrangere la narrazione, capitano però tra capo e collo quelle piantagrane di rilevazioni statistiche. L’ultimo rapporto Inps, in particolare, ci mette al corrente della sbalorditiva diffusione dei voucher. D’improvviso quei numeri ci fanno catapultare in un mondo dove dietro lo sfavillante marketing della «net-economy» si celano magazzini automatizzati dediti allo smistamento degli ordinativi. Un pianeta in cui l’utilissima e iper-tecnologica piattaforma web fornita delle aziende è possibile solo grazie a frenetici lavori di aggiornamento talmente costanti da non dover per nulla invidiare le scene di Chaplin. Ma andando oltre le oniriche elucubrazioni sulla tecnologia quello spaventoso numero di buoni lavoro descrive più di ogni altra cosa un contesto in cui il progresso tecnologico, se esiste, non è ancora economicamente preferibile rispetto all’assunzione di lavoratori a bassa qualificazione.

Il voucher, ultima e apprezzata frontiera della precarietà.

Mansioni tuttora vive e vegete non solo nei tradizionali comparti del primario (raccoglitori, conducenti di macchinari, addetti agli allevamenti) e dell’industria (edilizia, automobile, costruzioni stradali, elettrodomestici e via discorrendo), ma soprattutto dei servizi: dal call center alla ristorazione, dalla ricezione alberghiera alle pulizie, dalla sorveglianza alla caffetteria, dal commercio all’assistenza alla persona, dai servizi ospedalieri al turismo.
Secondo i dati forniti da Excelsior-Unioncamere riferiti all’anno 2010 questo tipo di mansioni riguardava la bellezza di 5,2 milioni di lavoratori, quasi un terzo dei dipendenti. Oltretutto, lungi dal rappresentare una specie in via d’estinzione, il numero di tali lavoratori è destinato ad una crescita irresistibile, sicuramente non inferiore a quella delle mansioni ad alta qualificazione. Lo stesso studio prevedeva addirittura che nel giro di cinque anni le professioni con qualifiche medio-basse sarebbero aumentate di 400mila unità, registrando al contempo un incremento di soli 100mila posti per le mansioni ad alta competenza.
Già nel 2007, del resto, un rapporto Censis aveva spiegato con notevole puntualità la forma praticamente a clessidra che andava ad assumere il lavoro italiano (ma anche europeo): si spiegava infatti come nei cinque anni precedenti la dinamica occupazionale abbia 

«inciso profondamente sulla struttura professionale del mercato del lavoro, determinando un consolidamento di tutto quell’alone di professioni a basso livello di qualificazione che rappresenta ancora la base portante dell’occupazione italiana; in aperta contraddizione con le ambizioni d’un sistema che tende a fare dell’innalzamento delle competenze e dei livelli formativi di base un requisito sempre più necessario dell’accesso al lavoro».

La tabella Inps (si veda pag.36 di questo link) sull'esplosione dell'utilizzo dei voucher

Il mercato, attualmente, offre quindi non un scintillante brulichio di cervelli iper-connessi, quanto piuttosto un’estrema polarizzazione in cui le mansioni ove il «merito» è ben poco rilevante risultano quelle più in crescita.
Arginare questi effetti è comunque possibile, non inseguendo mondi onirici ma rimanendo coi piedi ben piantati al suolo. Di conseguenza, non proseguendo nel mantra di affidare alla totale discrezionalità (spesso inaccettabile, come dimostra la diffusione dei voucher) del mercato la gestione del lavoratore ottenendo come solo risultato l’incremento dei profitti speculativi a danno della condizione economica e sociale del salariato; ma spingendo affinché le istituzioni pubbliche agiscano in prima persona favorendo e incoraggiando progetti industriali di lungo periodo improntati sull’innovazione tecnologica. Offrendo ampi investimenti in ricerca e sviluppo. Garantendo una quota di laureati quantomeno conforme alla media europea. Congegnando delle vere e proprie politiche industriali.

In poche parole, invertendo drasticamente la rotta intrapresa dai governi negli ultimi venticinque anni. 

mercoledì 9 dicembre 2015

Abbiamo bisogno di un partito

La vulgata anti-partitica inghiotte nella sua voragine strutture e organizzazioni, solidarietà e riti collettivi giustificandosi – quando non da uno sbraitare scomposto – tramite l’appello ad una presunta «modernità» traducibile concretamente, citando Hobbes, in un’esistenza misera, brutale e breve per la maggioranza schiacciante dei cittadini.
Avendo assistito a non esaltanti venticinque anni di Seconda Repubblica caratterizzati dalla quasi unanime damnatio memoriae nei riguardi delle organizzazioni partitiche è alquanto naturale giungere
Il cappio sventolato dalla Lega Nord durante Tangentopoli
inneggiava alla fine dei partiti
alla conclusione che forse una valutazione così impietosa verso le «polverose» organizzazioni di massa (il discorso si potrebbe infatti ampliare anche ai sindacati) non solo era ingenerosa, ma dettata più che altro da precisi interessi a cui eventi peraltro positivi come il crollo del muro di Berlino e il repulisti effettuato dalle procure nazionali hanno finito per fornire un’affrettata galvanizzazione a tutto scapito del lavoro e dell’assetto democratico.
Difficile rimanere inermi o trincerarsi dietro la rassicurazione omologante che «destra e sinistra non esistono più» quando ci si ritrova davanti alla sfacciata pubblicazione di un documento della JP Morgan in cui ci si vanta con malcelata euforia che

«I margini di profitto hanno raggiunto livelli che non si vedevano da decenni […] Sono le riduzioni dei salari e delle prestazioni sociali che spiegano la maggior parte dell’incremento netto degli utili. Questa tendenza continua da tempo: come abbiamo mostrato diverse volte negli ultimi due anni, la retribuzione dei lavoratori americani si colloca al punto più basso da cinquant’anni a questa parte in rapporto sia alle vendite delle società che al Pil degli Usa» (da JP Morgan, «Portfolios, US Corporate Profits and the Twilight of Gods», in «Eye on the Market», 11/07/2011, pag.1)

Poco ma sicuro che un grande partito di massa dotato di un solido radicamento e di una robusta rappresentanza parlamentare non avrebbe mai concesso che nei Paesi Ocse la quota dei salari sul Pil – tra cui va annoverata anche la stima del reddito da lavoro autonomo – subisse uno sbalorditivo
La quota dei salari sul Pil nel corso degli anni
tracollo
di mediamente dieci punti percentuali tra il 1976 e il 2006, passando dal 67 al 57% (sorte particolarmente feroce per l’Italia, passata dal 68 al 53% con la caduta di un notevole 15%) garantendo un flusso miliardario nel versante delle rendite finanziarie, dei profitti e delle rendite immobiliari (da Ocse, «Croissance et inégalités», Paris 2008, pag.38, riq.1.2).
Comprimere ogni organo di consolidata rappresentanza dei cittadini ha rappresentato il passaggio chiave non solo per sradicare ogni barlume di opposizione organizzata all’opera di redistribuzione della ricchezza dai cittadini alle oligarchie finanziarie, ma per consegnare definitivamente ai padroni dell’apparato mediatico l’essenziale compito della formazione politica tanto per la massa quanto soprattutto per una classe dirigente (soprattutto burocratica) attivamente disposta ad esaudire i desiderata più consolidati.
Nella censura dell’«esautorazione del popolo ad opera dei partiti, visti soltanto come gruppi oligarchici di potere» e nel disprezzo dell’«organizzazione autonoma della cittadinanza attiva nello spazio politico» (il partito, appunto) un giurista come Gerhard Leibholz intravedeva «un nuovo romanticismo politico estremamente pericoloso» (da G. Leibholz, «La rappresentazione nella democrazia», Milano, 1989, pag.334 et passim) definito magistralmente da Kelsen

«attacco, ideologicamente mascherato, contro l’attuazione della democrazia» (da H. Kelsen, «La democrazia», Bologna, 1981, pag.57).

Con la fine della Prima Repubblica sono state soppresse tutte le organizzazioni di partito


Se la radice antidemocratica alla base dell’astio verso i partiti era evidente nella Prima Repubblica – a partire dal 1971 il periodico neofascista «Avanguardia» vedeva come sottotitolo «periodico di lotta alla partitocrazia» - dagli anni Novanta in poi la bramosa ingordigia di gettare tra i rifiuti ogni rappresentanza democratica condusse repentinamente ad un monopolio politico e culturale dominato da questa sconcia polemica. Non solo la prevedibile Lega Nord accanita contro la «partitocrazia centralista, corrotta e mafiosa» e i postumi missini di Alleanza Nazionale, ma persino organi della sinistra come la rivista «Micromega» arrivarono a ribaltare il discorso definendo l’organizzazione partitica un relitto della destra. Sulla stessa scia si collocarono ben presto gli eredi del Pci di Achille Occhetto, prolifico dispensatore di ingiurie nei confronti dei partiti «diaframma, intermediazione parassitaria» e propositi di «rompere il sistema consociativo» nonché «l’esproprio partitocratico» affidandosi alle virtù messianiche «dei cittadini elettori».
Non furono immuni alla travolgente orda anti-partitica riviste di prestigio come «Il Mulino», bramoso nella spasmodica attesa che «i partiti attuali passino attraverso la ghigliottina» dell’auspicato
Anche la sinistra finì per essere monopolizzata
dai dogmi antipolitici
referendum del ’92 sul maggioritario e sul finanziamento pubblico ai partiti, consultazione da definirsi gioiosamente «mazzata che scrolli via i partiti» (più feroce ancora il pur notevole Edmondo Berselli, non esitante nell’abbandonarsi all’invocazione di «distruggere», «scomporre» e «disarticolare i partiti»).
Come non mancò Confindustria di esprimere il suo beneplacito alle mozioni referendarie, i quotidiani nazionali inneggiarono in coro alla rivolta popolare contro i partiti, chi facendo leva sui suoi costi («Corriere della Sera»), chi sulla riscossa di una mitica «società civile» («La Repubblica»), chi scagliandosi contro «il tiranno senza volto» della partitocrazia («La Stampa») in un’assillante operazione mediatica ben riassunta dalle definizioni di un altro studioso ammirevole, Giovanni Sartori, all’epoca anch’esso assorto nella battaglia contro i «partiti piovra» e la «partitocrazia parassitaria».

Nasce nelle campagne, non nelle fabbriche, la nozione
di partito
Vinta in maniera sbalorditiva questa battaglia e terremotato alla radice ogni residuo di tradizionale rappresentanza, la Seconda Repubblica poté iniziare la sua ingloriosa epopea elargendo finora soltanto ampie manciate di carisma personali, leggi ad-personam, speculazioni, incapacità amministrative e deleghe in bianco al leader di turno a cui una frastornata sinistra non fu in grado di porsi come reale alternativa oscillando tra lo scimmiottamento della leadership berlusconiana, l’invocazione antipolitica di deleghe alla magistratura (o a qualche figura dello spettacolo), iniziative nebulose all’insegna di «girotondi» e prove traballanti di democrazia diretta poi in larga parte sfociate nel grillismo.
Acuita dagli sconvolgimenti globali, la scomparsa dei partiti è tornata finalmente al centro del dibattito pubblico portando parecchi studiosi alla conclusione che il partito sia da definirsi sorpassato dalla fine dell’assetto fordista imperniato attorno alla fabbrica. Una constatazione storicamente discutibile – il partito prende origine nel contesto agricolo, non operaio - a cui Lipset ha già fornito una concisa risposta, affermando che

«I partiti politici devono essere considerati come le più importanti istituzioni di mediazione tra cittadini e Stato. Ed un elemento fondamentale per una democrazia stabile è l’esistenza di grandi partiti con una significativa base di sostegno» (da S. M. Lipset, «Istituzioni, partiti, società civile», Bologna, 2009, pag.344)


La prima cosa di cui abbiamo bisogno è un partito.