domenica 8 marzo 2015

Il vorace



Dovrebbe essere chiara e ben definita la differenza tra la velocità ragionata e il culto divinatorio dell’azione purchessia, tra la consapevolezza di un’urgenza e l’ingorda voracità che non guarda in faccia a nessuno, tra la ponderata ragionevolezza e la nevrotica frenesia. Dovrebbe ma non lo è né per Matteo Renzi, né per lo stuolo dei suoi sostenitori, uniti nella diffusione del verbo dogmatico delle «riforme» e della «velocità». Due parole che da sole rappresentano degli atti di fede la cui venerazione porta a vedere con ostentato fastidio non solo ogni obiezione, ma proprio ogni forma anche embrionale di analisi e di pensiero (oltretutto in uno schieramento come quello della sinistra, che ha sempre fatto della ragione opposta al sentimento il cardine della propria azione politica). In un’ottica tipicamente di destra, e nemmeno di quella liberale, il fare diventa l’unica cifra di un modello politico, trasformando in tal modo l’azione dal frutto consequenziale di un ragionamento all’incontrastabile protagonista del proprio credo.
Renzi piace perché «fa», a prescindere dal come, dal quando, mosso da quale utilità, spinto da quale interesse e proiettato verso quale direzione. L’unico connotato degno di nota in questa azione è rappresentato dalla velocità, dato che soltanto in base ad essa si può valutare compiutamente la validità del «fare». Il brivido dell’impulso finisce così per divenire l’unica sostanza e l’unico metro di giudizio, spodestando violentemente lo spessore culturale e la fondatezza analitica.
Non è una novità: il dover fare «perché bisogna farlo» ha sempre accompagnato una certa retorica soprattutto in tema di grandi opere e, più in generale, scelte d’impatto ambientale, ma solitamente ci si schermiva dietro qualche formula di rito che quantomeno denotava la volontà di fornire una, pur sommaria, risposta a chi desiderasse capire e ragionare con il proprio intelletto: «Lo chiede l’Europa», «Dobbiamo raggiungere il progresso», «Porterà lavoro» e via di questo passo. Il renzismo invece parte già dal presupposto che ogni ragionamento è fuori luogo. Di tempo per discuterne ce n’è stato troppo, ora viviamo nel momento in cui bisogna a tutti i costi girare pagina e mettersi sotto per agire, agire e agire. Tanto più che, a fare domande, pare ne manchi sempre di più la voglia all’interno di una società progressivamente più disinteressata e confusa.
Mette quasi i brividi confrontare questa smania con quanto scriveva più di un secolo fa Filippo Tommaso Marinetti, uno dei precursori del fascismo. I punti costitutivi del suo «Manifesto del Futurismo» comprendono:

«1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità penosa, l’estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità.[…]
7. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro».

In quest’ottica, anche la violenza e la sopraffazione appaiono esaltanti segni di vita se paragonati alla sonnacchiosa disquisizione sul futuro nostro e dei nostri figli. Del resto, lo stesso Marinetti compose quest’opera ancora traumatizzato da un violento incidente stradale. Anche schiantarsi riducendosi «col volto coperto dalla buona melma delle officine» è degno di lode e fonte di gioia.
Questo vorticoso impasto di rifiuto del ragionamento, di fervore incondizionato verso ogni forma di azione e di conseguente imperizia amministrativa non può non rappresentare il brodo di coltura perfetto, e ricercato, per le categorie che da anni auspicano vivacemente di accumulare il maggior profitto tramite la deturpazione del territorio, della cultura e dei beni collettivi.
«Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici» («La Repubblica», 15/08/2014) può rappresentare lo slogan emblematico- peraltro totalmente infondato se si considera che quasi sempre i resti sono rinvenuti casualmente- di questo fanatico culto del «fare» a discapito di tutto, compresa la preziosa bellezza del nostro passato.
Qualcuno risponderà che in realtà questo governo, più che nel «fare», si è distinto nel «voler fare» e nella promessa momentaneamente appagante per una fetta di elettorato ignaro della reale inconsistenza delle azioni annunciate. Vero in parte, dato che in casi di non secondaria rilevanza questo esecutivo si è dimostrato al contrario uno dei più voraci attuatori di alcuni sconcertanti progetti, sapientemente camuffati (ed è questa la reale astuzia comunicativa del premier) da battaglie sacrosante per la vita dei cittadini.
Il caso più eclatante è quello rappresentato da uno dei tanti decreti, nello specifico stiamo parlando dello «Sblocca-Italia», il quale con la scusa di rendere meno ossessiva la pedanteria degli apparati burocratici della pubblica amministrazione spalanca le porte alla legalizzazione dei più nefasti interventi sul territorio. La regola del silenzio-assenso (ossia il fatto che la mancata risposta da parte della pubblica amministrazione costituisce automaticamente una risposta affermativa alle proprie richieste) viene disinvoltamente applicata nei riguardi di praticamente ogni sorta di desiderio infrastrutturale. L’articolo 6 del decreto, per esempio, elimina totalmente l’autorizzazione paesaggistica prescritta dal Codice dei Beni Culturali per ogni posa di cavi per le telecomunicazioni. Sulla stessa linea, l’articolo 25 espande la regola del silenzio-assenso anche per «interventi minori privi di rilevanza paesaggistica», l’articolo 17 toglie di mezzo la «denuncia di inizio attività» mettendo al suo posto una palliativa e indiscutibile «dichiarazione certificata» redatta dal costruttore e inserendo un bizzarro «permesso di costruire convenzionato» la cui finalità è quella di non porre alcun freno nelle decisioni prese di comune accordo tra costruttore e autorità municipali. Poco oltre s’istituisce invece la figura onnipotente del Commissario straordinario unico per la costruzione delle nuove tratte ferroviarie, il cui appoggio verso queste infrastrutture è semplicemente incontrastabile, fosse anche da parte della Soprintendenza dei Beni Culturali, la cui contrarietà deve comunque essere espressa aggiungendo «specifiche indicazioni necessarie ai fini dell’assenso».
Questi, oltretutto, sono solo alcuni esempi, forse nemmeno i più sconvolgenti se si considera inoltre il fatto che in un passato nemmeno troppo lontano azioni analoghe provocavano una possente mobilitazione da parte della cittadinanza. Ai giorni nostri, invece, tutto ciò pare non avere più importanza, tantomeno tra i più ferrei sostenitori del governo la cui ossessione per il «fare» non vuole tenere conto del fatto che, almeno qualche volta, l’azione può essere deleteria e pericolosamente regressiva. Può anche portarci a schiantare, e in quel caso avremo assai poco di cui estasiarci. 

Nessun commento:

Posta un commento