giovedì 4 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte prima)



Se le esposizioni universali hanno come scopo quello d’illustrare al mondo un assaggio di futuro, il mondo che propone (o meglio, impone) l’Expo di Milano suscita una cospicua dose di sconforto. In uno sfavillante, e spesso anche esteticamente assai gradevole, susseguirsi di padiglioni quasi tutti a rappresentanza di un’istituzione nazionale, gli allestitori delle varie strutture espositive hanno indubbiamente fatto il maggiore sforzo a loro concesso, anche a livello di mezzi economici, pur d’incantare il visitatore con effetti tecnologici dal grande impatto sensoriale (molto gettonata la sensazione della pioggia, senza parlare dell’assortita possibilità del touch-screen in ogni sua possibile declinazione).
Il problema, infatti, non sta nel modo in cui il visitatore viene «intrattenuto». Anzi, quest’obiettivo si può considerare pienamente raggiunto: che si tratti, giusto a titolo d’esempio, dell’esperienza 4D a chiusura del padiglione kazako oppure dell’incantevole bosco a rappresentante dell’Austria oppure ancora degli avvolgenti aromi del Marocco, esperienze di piacevole svago e relax riescono a soddisfare qualsiasi palato.
Un visitatore interessato ad una disquisizione di quello che formalmente doveva essere il tema portante dell’evento, «Nutrire il pianeta, energia per la vita», farebbe bene però a non liquidare l’Esposizione come un’occasione sprecata, come una presa in giro ove il tema della nutrizione viene rimpiazzato da una planetaria competizione di marketing. All’Expo non vi è infatti alcun fraintendimento: la nutrizione trasformata in spettacolo pacchiano a sola disposizione di chi si può permettere il biglietto d’ingresso non è nient’altro che l’esito naturale di un percorso dove la superficialità è un precetto religioso, la dimensione del presente l’unica concepibile e, soprattutto, il rapporto tra gli uomini si riduce esclusivamente a quello di fornitore-consumatore.
L’ingiustizia più profonda ricoperta da una mano di pittura ipnotica e accattivante è esattamente ciò che trasmette l’Esposizione, nel cuore dello sfavillante trionfo del mondo su misura di Epulone. Come nella parabola biblica, infatti, il mondo che trova in Expo la sua compiuta agiografia (nonché un perfetto modello a cui rifarsi) è quello dell’onnipotente bulimico che, intento a divorare il suo pasto abbondante, limitandosi a lasciar cadere qualche briciola dal suo tavolo riceve gli sperticati ringraziamenti dell’esercito di disgraziati accucciati ai suoi piedi ed interamente dipendenti dalla discrezionalità dell’ingordo signore.
Gli Epuloni del mondo non esitano a mostrarsi in Expo in tutta la loro boriosa sicurezza, con la spavalda rivendicazione di esserne i dominus incontrastati. Talmente incontrastati da tenere alle loro dipendenze, come vedremo più in seguito, anche la loro opposizione. E dove non si fanno vedere con maggior chiarezza, gli Epuloni sono comunque onnipresenti: si arriva a camminare letteralmente sopra il frutto del loro profitto e, addirittura, di tale frutto ci si ciba prima di partecipare all’evento e dopo averlo lasciato.
Parliamo del cemento, non solo quello che ricopre i cento ettari dell’esposizione vera e propria ma soprattutto il cemento delle tre Grandi Opere che grazie all’Expo hanno trovato il miglior pretesto per essere prontamente eseguite, per la grande gioia di speculatori e politici ad essi contigui che da almeno trent’anni aspettavano il momento giusto per seppellire 1090 ettari di terreno agricolo e 202 ettari di bosco (da Luca Martinelli, «L’Expo mangia la terra», Altreconomia, 05/05/2014) sotto le insegne della Pedemontana, della BreBeMi e della Tangenziale Est esterna a Milano. Almeno dieci miliardi di soldi pubblici allegramente serviti sul piatto degli Epuloni del cemento «a cui», aggiungono Off Topic e Roberto Maggioni in «Expopolis» (pagg.138-139), «andrebbero aggiunti quelli per strade di collegamento, parcheggi, raccordi e raddoppio di strade statali». L’ormai ex-ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi aveva stimato in 3,8 miliardi il costo pubblico delle infrastrutture connesse all’evento (costo momentaneo, questo è chiaro, dal momento che è assai difficile concepire quanto opere del genere costino effettivamente sul lungo periodo in termini ambientali e idrogeologici). La sicurezza l’abbiamo semmai su chi ha il maggior guadagno da questa speculazione. Un nome da tenere a mente, perché nelle vicende connesse all’evento ritornerà come un abile burattinaio pronto a tenere nello stesso momento la marionetta del personaggio buono e del personaggio cattivo, disposto addirittura a farli bisticciare tra loro nel bucolico spettacolo di un dibattito sull’agroalimentare italiano che pare acceso ma in realtà vede l’accordo di tutti. Ci si riferisce a Intesa Sanpaolo, colosso finanziario tra i più attivi nel sostenere le infrastrutture ruotanti attorno ad Expo nonché prima partner di Expo nonché istituzione a cui verranno affidate le chiavi di ciò che diventerà l’area che ospita l’evento dopo la sua conclusione. Superfluo immaginare come verrà adoperata quella zona (altro cemento), meno superfluo è raccontare come abbia fatto Intesa Sanpaolo a raggiungere tale monopolio sull’evento: tutto inizia quando la società pubblica che si occupa dei terreni per l’evento, Arexpo, necessita assolutamente di 220 milioni di euro. Pur di ottenerli, garantisce la totale discrezionalità in termini di cementificazione all’istituto di credito che si assume l’onere di sganciare i quattrini necessari il prima possibile. Nonostante ciò, la richiesta non incontra soggetti interessati; è a questo punto che, come descritto nel volume «Expopolis» (pagg.110-112), la giunta Pisapia «decide quindi di approvare una fideiussione di 55 milioni» a cui fa seguito, siamo nell’ottobre del 2012, l’apertura delle buste. Qui arriva la sorpresa, dal momento che «dentro c’è una sola offerta, quella di Banca Intesa. Che si aggiudica la partnership, ovviamente. Intesa diventa quindi la banca di Expo. Sul tavolo mette 23,2 milioni cash, 10,5 milioni di prestazioni bancarie e […] quella linea di credito da 180 milioni, una parte dei 220 chiesti nel primo bando andato deserto». Assai indicativo il fatto che all’epoca a guidare la Compagnia San Paolo, de facto la Fondazione che gestisce il pacchetto azionario di maggioranza della banca, sia Sergio Chiamparino, uno tra gli esponenti di maggiore spicco del Partito Democratico; restituendo di conseguenza l’ennesima immagine di un settore pubblico e di un settore privato ove la differenza d’interessi diventa talmente sovrapponibile da essere rappresentata dalla medesima persona.
Nutrire il pianeta? Di nutrimento si tratta sicuramente, ma sul beneficiario è lecito serbare qualche sospetto; tanto più se si tiene in mente quanto scriveva Greg Clark su un volume pubblicato solo pochi anni orsono («Cosa succede in città. Olimpiadi, Expo e grandi eventi: occasioni per lo sviluppo urbano», edito dal «Sole 24Ore», pagg.54-55): «Non ripeteremo mai abbastanza quanto sia importante sfruttare l’organizzazione di un evento come catalizzatore per programmi di sviluppo o di riqualificazioni esistenti».
Expo, quindi, come pretesto per proporre un nuovo (anche se tanto nuovo non sembra) modello di sviluppo. Basta questa frase per comprendere, e non solo dal punto di vista della speculazione ambientale, una delle anime fondanti dell’evento. A proposito, sapete da chi è firmata la prefazione del libro di Clark? Da Sergio Chiamparino.

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