giovedì 18 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte sesta)



Expo è un evento costoso, su questo vige una concorde unanimità. Secondo il sito web expoleaks, ogni singolo padiglione costa mediamente tra i 20 e i 25 milioni di euro, mentre il bilancio di sostenibilità 2013 e 2014 di Expo 2015 Spa. ammette che i quattrini pubblici sganciati per la manifestazione corrispondono a 1,3 miliardi, senza considerare ovviamente la mole spaventosa di fondi sottratti dai contorti giri di corruzione che da sempre trovano nelle Grandi Opere il terreno più fertile (anzi, a voler essere maliziosi l’ostinazione verso la preparazione di Grandi Opere e Grandi Eventi pare essere finalizzata appositamente a fornire piattaforme ideali su cui imbastire sempre più sofisticate pratiche criminali).
Considerando che secondo l’Onu (correva l’anno 2008) per debellare la malnutrizione dal pianeta servirebbero 30 miliardi di dollari all’anno non occorre grande acume matematico per comprendere che se effettivamente la sensibilità è rivolta alla nutrizione del globo certe risorse sarebbe stato preferibile adoperarle direttamente per quest’ultimo scopo.
Di fronte a queste banalissime osservazioni sono in molti però a ribattere che attorno ad Expo ruotano comunque altri aspetti (e molti padiglioni sembrano averlo capito benissimo) tra i quali spicca con evidenza la presentazione del proprio Paese ai cittadini stranieri. Anche l’Italia non ha mancato di fare la sua parte, e infatti in conclusione di questa rassegna di interventi su Expo non ci resta che analizzare in definitiva il tipo di Italia che emerge dall’evento. Come viene raccontata ma, soprattutto, come la si vorrebbe compiutamente realizzare.
«In assenza di correzioni, dietro l’angolo non c’è l’uscita dall’Europa, il rifugio in un’impossibile autarchia, ma il rischio di diventare una Disneyland al suo servizio, arricchita dal nostro clima, dalle nostre bellezze naturali, dalle vestigia della nostra storia e della nostra arte». Leggere ai giorni nostri questa affermazione di Giuliano Amato (da Dino Pesole, «L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni» sul «Sole 24Ore» online del 30/04/2010) strappa un amaro sorriso: sono bastati poco più di vent’anni per trasformare un incubo da cui scappare ad un rifugio verso il quale correre senza obiezioni. Ridurre la nostra penisola ad un pittoresco cortile dove far svagare in piena libertà i grandi magnati internazionali è infatti una parola d’ordine ossessiva, seppur addolcita da formule di rito quali «attrarre investimenti stranieri», «puntare tutto sull’export» e, la più fortunata, «puntare tutto sul turismo». Frasi subdole e, specie l’ultima, a prima vista ineccepibili. Peccato solo per il fatto che trasformare le nostre città in giganteschi parchi divertimenti per turisti, meglio se facoltosi, ferisce mortalmente il tessuto connettivo di chi in quella città ci vive, sottraendo (e a farne le spese sono anche i turisti, almeno quelli più avveduti) una componente fondante di una comunità civile, ossia l’ambiente umano, la storia, le storie, gli incontri e i contatti di cui una città si nutre per poter essere definita tale. In una fredda parola il contesto, di cui un’opera d’arte o una bellezza naturale rimangono legate in uno splendido e insostituibile connubio.
A meno che, ed è questo il punto, la capacità attrattiva dell’Italia non la si voglia rivolgere esclusivamente verso chi dell’aspetto umano e sociale del nostro Paese ne fa volentieri a meno, principalmente i turisti «mordi e fuggi» la cui ambizione più sensazionale è contare i «mi piace» dei propri selfie di fronte alla torre di Pisa (il che, purtroppo, attualmente rappresenta la quota maggioritaria e più redditizia del settore turistico) oppure i turisti più facoltosi oppure, meglio ancora, le grandi istituzioni industriali/finanziarie. Non c’è nemmeno più bisogno di nascondersi per rendere palese questo progetto. Rimanendo nel settore alimentare propagandato da Expo, si provveda a leggere con attenzione le parole che il leader di Eataly Oscar Farinetti rivolge al giornalista Andrea Scanzi nel corso di un’intervista (il video lo si può rintracciare su YouTube sotto il titolo «Oscar Farinetti ospite da Andrea Scanzi a #Reputescion»): «Per me nel Sud c’è una roba da fare: un unico grande Sharm el-Sheikh, hai presente quella roba in Egitto dove ci va tutto il mondo in vacanza? [Il Sud, ndr.] è uno dei posti più belli del mondo: facciamo venire i turisti di tutto il mondo lì…E aprirei alle multinazionali di tutto il mondo che vengano a farlo, gli farei agevolazioni fiscali bestiali, non pagano tasse per dieci anni». Concetto ribadito in un illuminante convegno organizzato da Italiadecide e scaturito in un documento («Italiadecide, Il Grand Tour del XXI secolo») destinato a divenire una pietra miliare per capire cosa intendano fare dell’Italia determinate classi di potere, tra cui spiccano due istituzioni che abbiamo incontrato più volte nel nostro racconto: Autostrade per l’Italia (ossia Benetton) e Intesa Sanpaolo. Tra le pagine 155 e 169, Farinetti illustra la linea d’azione: «In poco tempo…dobbiamo censire i 5mila più impostanti paesaggi italiani. Sto parlando di piazze, strade, borghi, valli, viste, colline, montagne, pianure e mari. Ogni paesaggio va raccontato, descritto, spiegato nelle sue origini, nei suoi particolari, in tutta la sua bellezza. Il tutto si troverà sulla guida Italia Vera».
Sfogliando il documento, più volte ricorrono imperativi quali «semplificazioni burocratiche» (pag.253) e «revisione dei piani urbanistici» (pag.254) i quali, tradotto dal criptico linguaggio propagandistico, significano soltanto l’eliminazione di ogni vincolo nei confronti delle grandi imprese che vengono nel nostro Paese, primo fra tutto il via libera alla cementificazione più selvaggia. Tanto più in un periodo di crisi e preoccupante disoccupazione, la corsa condotta globalmente dai vari Paesi per accaparrarsi investimenti e turismo deve adoperare tutte le armi a disposizione (non è forse questo il fine della globalizzazione?) per rendere più appetibile il proprio territorio; dalla compressione dei salari alla massima libertà d’azione, gli Epuloni mondiali vanno coccolati in ogni modo pur di ricevere quantomeno la speranza che lascino cadere qualche briciola dal loro luculliano banchetto, al punto tale che lo storico d’arte Philippe Daverio arriva a proporre nientemeno che di «adottare un ricco». E se non possiamo materialmente cullare i grandi operatori internazionali, dobbiamo almeno garantire a questi un ambiente comodo alle loro speculazioni anche dal punto di vista delle libertà personali dei cittadini. Proseguendo nel rapporto di Italiadecide (pag.239) si ritiene infatti che il successo dell’operazione di attrazione verso l’Italia del capitale turistico straniero dipenda in misura determinante «dall’immagine fornita dal sistema paese, dalla sua credibilità, dal senso di sicurezza trasmesso ai potenziali visitatori, dall’idea di ordine e di organizzazione territoriale, sociale ed economica veicolata dai mass-media, dalle cronache quotidiane, dai social network». Avete letto bene. Gli italiani devono mettersi in riga come solerti camerieri, non solo senza fiatare, ma senza nemmeno la possibilità di sfogarsi liberamente su facebook.


















Nell'immagine qui sopra, la testimonianza di come la narrazione di Expo sia così pervasiva da arrivare a contagiare persino i foglietti distribuiti durante la Messa

Anche da questo punto di vista, Expo rappresenta la palestra e la prova generale di un mondo, e quindi anche di un Paese, ridotto a silenzioso sguattero dei grandi apparati finanziari. È sempre Philippe Daverio a chiedere se «per sei mesi proviamo ad abolire il diritto al mugugno», e d’altronde non ci si poteva aspettare posizione diversa da un signore attivo in prima persona nell’opera di svendita del patrimonio culturale italiano (appartiene infatti al Comitato Scientifico a libro paga del concessionario privato della Reggia di Monza, in un contesto dove i vertici di Italiana Costruzioni intendono destinare la parte Nord della Villa ad un albergo di lusso).
Potrà dispiacere a lorsignori, ma il mugugno è il minimo che si possa emettere a fronte di una gestione del patrimonio culturale finalizzata esclusivamente al profitto privato e sempre più proiettata verso la sindrome della cosiddetta «maledizione delle risorse», ove la spietata ricerca della rendita di un lucroso prodotto presente in quantità massiccia in un determinato paese (caso tipico quello del petrolio) finisce per sfociare, usando le parole dello storico Tomaso Montanari (ispirate a idee del sociologo Andrea Declich), «nella corruzione del rapporto tra pubblico concedente e privato concessionario, nella rinuncia a sperimentare economie alternative (come una vera economia pubblica del patrimonio: presente, per esempio, in Francia), nella monocultura turistica ossessivamente praticata dalle città d’arte più celebri, nella organizzazione di eventi che consentano di massimizzare i risultati economici in un brevissimo termini». Una distorsione che porta, prosegue Montanari, «a immaginare di spostare continuamente i Bronzi di Riace in eventi di grido, invece che trasformare la Salerno-Reggio Calabria in una vera autostrada che permetta ai cittadini e ai turisti di raggiungere il Museo di Reggio; o che spinge ad “arredare” l’Expo di Milano con inutili mostre di Giotto o Leonardo invece che a finanziare progetti di arte contemporanea con ricadute permanenti sui territori che ne avrebbero maggior bisogno».
Infatti, sebbene in pochi se ne ricordino, Expo ospita all’interno dei comodissimi spazi affidati per oscure congiunzioni astrali alla filo-governativa Eataly di Farinetti una raccolta di esemplari di arte italiana, agglomerato senza uno straccio di filo conduttore ove pezzi rilevanti del nostro patrimonio storico finiscono per diventare nulla di più di un marchio commerciale il cui fine dichiarato non è l’arricchimento personale e culturale, bensì la sponsorizzazione dell’impero farinettiano.
Un obiettivo, quello di sottomettere la cultura italiana alle esigenze di marketing di Eataly, che, come di consueto, non ha guardato in faccia a nessuno. Non ci si è fatti scrupoli nel saccheggiare opere di proprietà pubblica, come quelle presenti nella Pinacoteca Comunale di Castiglion Fiorentino oppure le otto monumentali statue presenti nel Battistero di Pisa (mai trasportate finora per la notevole fragilità delle opere) oppure il «San Paolo» di Masaccio custodito dal Museo Nazionale di San Matteo di Pisa, ottenuto quest’ultimo grazie a coercizioni politiche nei confronti di una soprintendenza inizialmente riluttante nel concedere il proprio gioiellino.



Di fianco, la prova documentale dell'iniziale diniego della soprintendenza alla richiesta di utilizzare un'opera del Masaccio come vetrina di Eataly all'Esposizione




























A confezionare tutto ciò, si raggiunge dulcis in fundo l’apice del pacchiano con verybello.it, piattaforma web predisposta dal Ministero dei Beni Culturali per valorizzare il patrimonio culturale del Belpaese in occasione di Expo. Iniziativa non solo grottesca, ma per giunta copiata di sana pianta da verybella.it, «prima linea di make-up e style per bambine».
Avete capito bene: la presentazione al mondo della nostra storia è affidata ad un sito internet pesantemente ispirato alla cipria delle bimbe. Ridiamo per non piangere, sperando che almeno questo ci sia concesso.

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