venerdì 5 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte seconda)



Se ad Expo diradiamo l’avvolgente nebbia di effetti speciali e ci premuriamo con cura di sbucciare tutte quelle che sono le promozioni turistiche dei vari Paesi (ci sono padiglioni incentrati esclusivamente su questo: Ecuador, Colombia, Uruguay, Polonia, Cile, Indonesia, Vietnam e qualche altro), si riesce a scorgere qualche idea su ciò che l’Esposizione intende disporre per «Nutrire il pianeta».
Il punto di vista, lo si nota già a qualche metro dall’entrata, è smaccatamente schierato: la parte del leone è giocata infatti dagli onnipresenti, ben posizionati e mai estranei alla vista padiglioni dei grandi sponsor, talvolta con la sfacciataggine di collocarsi nel cuore dei cosiddetti cluster il cui scopo è quello di offrire uno spazio espositivo anche alle nazioni con minori disponibilità (disponibilità che in totale sono ammontate comunque a circa 45 milioni).
In tal modo appena entrati ci ritroviamo sulla sinistra l’invitante banco di Casa Algida, pronta a sponsorizzare i prodotti dell’omonima azienda espressione di Unilever. La stessa Unilever che nella gestione della fabbrica Hindustan Lever Ltd. è stata sovente soggetta a procedimenti giudiziari da parte dell’India per i vari tentativi di estromettere qualsiasi forza sindacale, la stessa Unilever che acquista abbondanti quantitativi di olio di palma alla Wilmar (tristemente nota come tra le maggiori responsabili della deforestazione indonesiana, con tanto di pesanti intimidazioni verso le popolazioni locali), la stessa Unilever che costringe i lavoratori delle piantagioni indiane di tè a vedere costanti decurtazioni dei salari e segrega i braccianti del Kenya in «cubicoli» senza servizi igienici dove far vivere intere famiglie, la stessa Unilever che in Pakistan arrivò addirittura ad assoldare la polizia locale per costringere alcuni lavoratori a sottoscrivere contratti sindacali privi delle garanzie previste dalla legge e che, infine, talvolta rifila ai propri consumatori prodotti OGM.
Appena sulla destra, se si desidera un momento di ristoro, non resta che lasciarsi cadere sulle poltroncine offerte dalla Ferrero, non altrettanto generosa nei confronti dei contadini a cui i fornitori di cacao, olio di palma e tè sottopongono i loro dipendenti e nemmeno altrettanto con i loro cospicui consumatori, se è vero che, almeno secondo Greenpeace, si registra un singolare silenzio di fronte alla richiesta di non adoperare organismi geneticamente modificati nei suoi prodotti.
Proseguendo più avanti ecco il civettuolo store della Perugina, che non tutti sanno essere affiliata della Nestlè (la quale fra l’altro ad Expo gode di un iper-interattivo padiglione affiancato a quello della Svizzera) che non tutti sanno essere tra le responsabili dell’alta mortalità infantile in paesi come il Bangladesh in «virtù» dei consigli, spesso autentici raggiri, che invogliano le madri ad alimentare i propri bambini con latte in polvere dell’azienda. Verso i bambini la Nestlè ha una discreta bramosia, se è vero che sfrutta, in condizioni paragonabili alla schiavitù, centinaia di ragazzini nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio. Senza considerare i gravissimi danni ambientali dovuti alle piantagioni illegali di caffè responsabili di pesanti deforestazioni o gli altrettanto atroci sospetti di coinvolgimenti dell’azienda sia in azioni squadriste condotte contro rappresentanti sindacali sia addirittura nel misterioso omicidio del sindacalista Luciano Enrique Molina.
Non manca ovviamente l’organizzatissimo padiglione della Coca-Cola, tanto disponibile nell’offrire bevande fresche ai suoi avventori (sperando che dentro l’intruglio non ci sia polvere di ferro, come denunciato nel 2006 da un consumatore giapponese) quanto spietato nelle più scellerate violazioni dei diritti umani (basti considerare che tra il 1990 e il 2008 nella sola Colombia dodici sindacalisti sono stati assassinati e 179 sono state le aggressioni). Né poteva mancare la gettonatissima McDonald’s, tra le prime responsabili della distruzione della foresta amazzonica al fine di lasciare spazio alle coltivazioni di soia.
Sono loro a forgiare buona parte dello spirito alimentare di Expo, a partire dall’acqua (venduta come merce qualsiasi dalla Nestlè) fino a redigere de facto di loro pugno la «carta di Milano», ossia quello che dovrebbe rappresentare il lascito moralmente più rilevante dell’Esposizione. A ispirare tale documento è infatti la Fondazione Barilla, legata strettamente all’omonima azienda responsabile (secondo Flai-Cgil) di licenziamenti mascherati, responsabile dello sversamento in atmosfera nel solo 2006 di 60 milioni di chili di gas serra e, dulcis in fundo, titolare di finanziarie collocate in Lussemburgo.
Le raccomandazioni, che trapelano dal documento ma in realtà filo conduttore di tutta l’Esposizione, finalizzate a sconfiggere la malnutrizione del pianeta si possono riassumere in (quelli che seguono sono estratti della «Magna Charta»): «Individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze», «creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari» e infine «che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori». Stando a quanto si prescrive, pare che la fame nel mondo dipenda soltanto da come si comporta il tipico consumatore occidentale con gli avanzi della sua cena: al posto di buttarli dovrebbe elargirli a chi ne ha bisogno.
Tale semplicistico (al limite del grottesco) modo di pensare non solo esime di ogni responsabilità i magnati dell’agro-industria e della grande distribuzione scaricando ogni colpa sul consumatore finale (il quale si ritrova sottoposto ad un autentico processo fin dal «padiglione zero»), ma ritiene perfettamente regolare sia la ripartizione delle ricchezze, economiche e naturali, sia l’iter di creazione e trasformazione del cibo che invece dovrebbero essere i protagonisti indiscussi di un dibattito sulla fame nel mondo. Nel mentre quindi i cittadini poveri sono trattati come dei cani da compagnia a cui riservare i rimasugli di ciò che resta sul tavolo quando i benestanti sono sufficientemente sazi e nel mentre si vede nell’obesità (affrontata alla stregua di un hobby) la visibile causa di cosa significa sottrarre risorse alimentari a chi non ne possiede (senza minimamente osservare che, più che la quantità, è la scarsissima qualità dei prodotti alimentari che i grandi colossi propinano a suscitare anomalie nella salute), della scandalosa concentrazione in pochissime mani di tutti i punti nevralgici dell’alimentazione, dalla terra alle fasi di trasformazione e commercializzazione (dove fra l’altro si concentra più di un terzo dello spreco, tra lo scarto di frutta non esteticamente perfetta e date di scadenza talvolta piazzate con notevole anticipo) si decide semplicemente di stendere un velo di silenzio.
Lo stesso comparto prettamente agricolo viene affrontato senza mai tenere conto di quanto ammonti effettivamente il terreno coltivabile sul pianeta: secondo la Fao abbiamo a che fare con 4,1 miliardi di ettari, quanto basta non solo per nutrire a piena sufficienza tutti i suoi abitanti, ma anche per disporre di materiale da costruzione, fibre da tessere e persino una superficie boschiva estesa trenta volte più dell’Italia. Ammetterlo però significherebbe riconoscere implicitamente l’aberrante gestione delle risorse agricole, a partire dagli allevamenti da carne arrivando fino alla recente moda del biocarburante, che da solo arriva a divorare un quarto della produzione statunitense annua di mais e frumento senza la presenza di autentiche garanzie di convenienza.
Si preferisce invece suscitare allarme su come fare per rendere più produttivo il terreno, e ambigui riferimenti alla «genetica» (specie nei padiglioni francese e tedesco, tra i pochissimi ad affrontare tematiche connesse all’agricoltura) lasciano presagire quale sia la strada imposta dai colossi agro-alimentari globali: gli OGM.
Se lo chiedeva con una sana dose di malizia Cinzia Scaffidi, membro di spicco del movimento Slow Food, in un articolo su «La Stampa» del luglio 2014: «Come mai tutto quest’agitarsi, proprio adesso e proprio qui, su questo tema [gli OGM, ndr.]? Per via del semestre italiano di presidenza europea, diranno alcuni…Ma il semestre italiano non è la sola ragione…Esso, infatti, finirà, e cederà il passo, pochi mesi dopo, a un altro grande appuntamento, l’Expo 2015, nel quale le aziende che producono semi gm per l’agricoltura saranno presenti e forse desiderano trovare un Paese meglio disposto, verso di loro, di quanto lo sia oggi. Questa specie di campagna stampa si spiegherebbe così con la necessità di offrire alle multinazionali un pubblico italiano meno critico rispetto agli OGM in agricoltura. O, semplicemente, già talmente stufo di sentirne parlare che si lascerà scivolare addosso gli slogan e i toni da crociata che oggi sembrano caratterizzare i sostenitori di quel tipo di biotecnologia».
Meritano un applauso solo solo per la schiettezza, affermazioni di questo tipo. Se non fosse che Slow Food del sistema Expo ne figura tra i protagonisti, pronta a dimostrare (insieme ai compari Eataly e Coop) un’opposizione di facciata ad uso e consumo dei medesimi colossi finanziari e industriali talmente potenti da manovrare non solo i contenuti dell'evento, ma addirittura la sua più influente contestazione. Questo sarà il prossimo argomento affrontato.

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