sabato 6 giugno 2015

Expo, ossia il mondo che non vorrei (parte terza)



La pacata narrazione di Slow Food, così semplice e così invitante per il mondo della sinistra (ovunque sia ora finita), è a suo modo paradigmatica per capire tante delle contraddizioni che hanno accompagnato l’universo progressista italiano nel suo irreversibile dissesto.
Lo racconta con illuminante sagacia un volume di recente pubblicazione, «La danza delle mozzarelle» ad opera di Wolf Bukowski, puntuale nel tracciare le tappe fondamentali di un percorso che passo dopo passo ha portato la sinistra italiana a lasciarsi ammaliare dai racconti dei vari guru Petrini e Farinetti senza rendersi conto (o magari facendolo di proposito) quanto quelle idee così apparentemente ricche di giustizia sociale e insofferenza verso le multinazionali fossero in realtà funzionali alla spietata logica anti-egualitaria degli interessi più forti. Interessi che, a ben guardare, sono onnipresenti nelle attività dei vari radical-chic dell’esofago, diciamo anzi che ne sono indispensabili per la loro sopravvivenza e che trovano nella partecipazione ad Expo il loro apice.
Basta una rapida occhiata sul sito www.fondazioneslowfood.it per scoprire, per esempio, quanto la Compagnia San Paolo (vale a dire Intesa Sanpaolo, ossia la banca di riferimento di Expo, la stessa che più di tutte partecipa alla mangiatoia delle infrastrutture di Expo, la stessa che fra le altre cose si è distinta in passato per una cospicua esportazione di armi) sia lodata dal movimento di Petrini per i lauti finanziamenti ricevuti in occasione di una ricerca su «casi virtuosi di commercializzazione diretta o di filiera corta». Ma le pratiche di copulazione tra la grande finanza e il punto di riferimento gastronomico della sinistra più schizzinosa sono ancora più evidenti se andiamo a leggere un comunicato stampa del 28 giugno 2014 dedicato alla presenza di Intesa Sanpaolo al Salone del Gusto: il gruppo bancario per l’occasione non manca di vantarsi di aver «scelto dal 2006 di essere partner di Slow Food, ne condivide gli obiettivi e promuove anche al proprio interno comportamenti improntati a evitare sprechi…Intesa Sanpaolo, che crede nell’eccellenza italiana del settore agroalimentare e la sostiene, assume un ulteriore impegno nella valorizzazione del made in Italy in qualità di Global Banking Partner di Expo Milano 2015».
Non sono parole di circostanza. Intesa Sanpaolo ha davvero le idee chiare su quale debba essere la direzione da seguire per valorizzare le eccellenze italiane, tant’è vero che non solo nel 2009 sigla accordi con Confagricoltura (l’unico sindacato agricolo smaccatamente a favore degli OGM), ma insieme a quest’ultima organizza nell’ottobre del 2013 un ciclo di conferenze il cui obiettivo è divulgare «una panoramica tra miti leggende e realtà che riguardano il tema delle biotecnologie, del cibo e dell’agricoltura, che ha evidenziato la importanza della comunicazione scientifica per contrastare una dilagante, preoccupante disinformazione antiscientifica» (da Lorella Pellis, «Settimana Europea delle Biotecnologie: ai Georgofili si è parlato di genetica e agricoltura», «Toscana Oggi» del 04/10/2013).
Molti a questo punto ricorderanno le veementi filippiche del gruppo di Carlin Petrini contro gli organismi geneticamente modificati che più di ogni altra cosa stanno lì a testimoniare la fiera posizione di Slow Food sull’argomento. Andando a scavare più a fondo, si va però a scoprire quante sfumature e quanti distinguo rendano ambiguo il movimento Slow in rapporto al tema delle biotecnologie.
Sfogliando ad esempio il volume scritto a quattro mani dallo stesso Petrini insieme a Gigi Padovani («Slow Food Revolution. Da Arcigola a Terra Madre. Una nuova cultura del cibo e della vita», pag.256) possiamo assistere alle seguenti affermazioni del divino Carlin: «Voglio chiarire che Slow Food con quella campagna a favore della biodiversità lanciata nel novembre 2004 ha semplicemente voluto affermare la necessità di avere regole certe e definite per la coltivazione di organismi geneticamente modificati in campo aperto…Ci siamo battuti per ottenere norme prudenziali a tutela di pratiche agricole contro quelle industriali. Non ci stiamo ad essere accusati di luddismo o oscurantismo. Siamo convinti che il vero superamento della questione possa avvenire soltanto con il tempo, attraverso un colloquio tra i saperi tradizionali, dei quali sono depositarie le comunità rurali, e la scienza ufficiale».
È semplicemente l’assenza di dispositivi di legge sulla materia a rendere scettici sulle conseguenze degli OGM, un pudore legalitario che emerge con nettezza in un comunicato di Cinzia Scaffidi («Slow Food Italia: OGM, necessario il rispetto della legalità in Friuli») risalente al giugno 2014 in cui si esplicita: «Qui non si tratta di ideologia, di pro o contro gli OGM. Con buona pace di tutti i sostenitori degli OGM, al momento esiste un decreto che vieta in Italia la coltivazione del MON 810 ed esiste anche una legge regionale che rafforza questo quadro. Non si può fare nessuna discussione se prima non si ristabilisce la legalità».
Sorge spontaneo il dubbio su cosa accadrà, un evento non così remoto, quando effettivamente la coltivazione degli organismi geneticamente modificati sarà pienamente legalizzata e operativa. Sarà bello capire a quel punto dove intende schierarsi Slow Food, e la risposta a tal riguardo diviene sempre più sospetta se si va a leggere cosa pensa Petrini di una figura come José Bové che non ci ha pensato due volte a far valere le sue idee (con tanto di trattore in azione per impedire l’edificazione di un McDonald’s) anche rischiando serie ripercussioni giudiziarie: «Quando passa all’azione, però, [Bové, ndr.] percorre strade e adotta strategie di aperto conflitto con le multinazionali che noi non intendiamo praticare» (da Carlo Petrini, «Slow Food, le ragioni del gusto», pagg.27-28).
L’opposizione praticata da Slow Food è quella che tira la fune stando però ben attento a non spezzarla, che si lamenta dei grandi guai del mondo senza però additarne chiaramente le cause e proporre radicali alternative di sviluppo. La sua opera più «rivoluzionaria» è quella di spiegare il sistema di sfruttamento degli uomini e delle risorse, non di volerlo combattere alla radice; e infatti la prima rivendicazione di Petrini è: «Iniziare assolutamente dalle scuole…Il richiamo alla realtà è per tutti: il sapere gastronomico deve essere recuperato e vanno posti i termini perché possa essere veicolato» (da Carlo Petrini, «Buono, pulito e giusto», pagg.150-151).
L’importante è non scontentare troppo lorsignori, gli Epuloni dell’industria agroalimentare che in misura massiccia compaiono tra i «Partner Strategici» della (costosissima) Università di Scienze Gastronomiche «nata e promossa nel 2004 dall’associazione internazionale Slow Food con la collaborazione delle regioni Piemonte ed Emilia Romagna», prima fra tutti Autogrill, emanazione della famiglia Benetton che costringe i suoi (seppur indiretti) dipendenti cinesi alla rinuncia di ogni libertà sindacale, che subisce nel 2004 una multa per violazione delle gare d’appalto da parte dell’autorità garante, che secondo un’indagine Labour Behind the Label è tra le più insensibili al tema delle paghe, che possiede il più grande latifondo della Patagonia argentina (900mila ettari) anche a costo di aver fatto sloggiare con ogni mezzo la popolazione Mapuche ivi residente da secoli e che, dulcis in fundo, gestisce anche il maggior latifondo italiano (Macarrese Spa., 3200 ettari nella zona di Fiumicino la quale fra l’altro, toh guarda la coincidenza!, risulta associata a Confagricoltura). Ma tra questi partner risultano anche Barilla, Ferrero, consorzio Parmacotto e finanche Ikea (per un approfondimento si legga «Slow Food. Buono, Pulito e Giusto?», Anticorpi.info, 06/01/2013).
E sull’idea che questi magnati possiedono della giustizia sul pianeta non persistono dubbi di alcun tipo. La diseguaglianza è la linfa che li tiene in vita, e di questo messaggio è impregnata indubbiamente anche l’attività di Slow Food: i prodotti che espone sono chiaramente disponibili solo per chi dispone delle risorse economiche necessarie per acquisirli. Delle classi disagiate di cui certa sinistra adora sciacquarsi la bocca non vi è la minima considerazione. Anzi, lo stesso marchio Slow Food finisce per divenire sinonimo di diseguaglianza se è vero che, come scrive Alberto Grossi in «Politica e cooperazione internazionale in Slow Food» (pag.40), «i prodotti segnalati e valorizzati da Slow Food vedono incrementare il loro valore di circa il 30%».
Un tema, questo, su cui J.M. Hirsch («Slow Food must shed elitist label», Associated Press, 09/12/2008) fornisce un’ottima chiosa: «La mamma single che accumula più lavori part-time per dare da mangiare alla propria famiglia potrebbe anche adorare il gusto del Brie locale e biologico, ma è difficile immaginare che vada a comprarselo quando addirittura il prezzo del pane e del latte sono fuori portata».
Ma è sui rapporti con la Grande Distribuzione (altra indubbia protagonista di Expo) che sia Slow Food che il suo degno comprimario, Eataly, mostrano con maggiore nettezza il vero volto nascosto dietro la maschera di opposizione comoda alla grande agro-industria. Di questo sarà opportuno occuparsi a breve.

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