mercoledì 14 ottobre 2015

Che ci fa la Russia in Medio Oriente

Ovviamente non sono né il benessere dei siriani, né la «difesa della sovranità nazionale» (variante moscovita della statunitense «esportazione della democrazia») a spingere la Federazione Russa ad affrontare l’aggrovigliata matassa mediorientale spedendo 2500 uomini nella fascia nordoccidentale dell’ormai defunta nazione siriana, tanto più se consideriamo la metodicità e la freddezza logica (spesso assente tra i rivali statunitensi) che spinge Mosca ad approvare azioni militari. Permangono l’interesse verso un’enclave decisiva – dal punto di vista delle risorse energetiche, della ricchezza archeologica e dell’essenziale posizione geografica – ma anche il desiderio di regolare altre partite, sia nell’area che a livello internazionale.

1. Difendere l’Alauistan per proteggere al-Asad e le basi militari sul Mediterraneo
Il clan sciita degli al-Asad che fino al 2011 dominava incontrastato a Damasco gode di un legame peculiare con la Russia a partire da quando il capostipite Ḥafiẓ trascorse un lungo e fruttuoso soggiorno a Mosca apprendendo peraltro alcune pratiche militari che gli torneranno utili una volta tornato in patria. Le cordialità rimasero talmente salde che ancora nel 2011 non solo vivevano in Siria 100mila russi ma entravano in vigore contratti per forniture di armamenti per un valore di quattro miliardi di euro. L’acme dell’intesa, però, va fatto risalire al 1977, anno in cui fu proprio la Siria il paese disposto ad accogliere le basi della Marina sovietica sul Mediterraneo a seguito della rottura dei rapporti tra Mosca e Il Cairo. La regione adibita a fornire alla Russia una base d’appoggio nel Mare Nostrum, quella tra Latakia (in cui sono presenti nuove installazioni aeree), Ğablat (sede della base sottomarina) e la fondamentale Ṭarṭūs (sede della base navale) rappresenta quindi per Mosca l’unico e irrinunciabile piede nel Levante; e al contempo rappresenta per la famiglia al-Asad l’unica vera porzione di territorio siriano rimasta al momento sotto il proprio controllo. Se ne è resa conto anche Mosca, la quale difatti limita le proprie azioni alla difesa del cosiddetto «Alauistan» (soprattutto l’area di Latakia) dando per definitivamente conquistato dalle milizie del Dāʽiš (lo Stato Islamico), di Ğabhat al-Nuṣra e di altre cellule jihadiste il resto della nazione.



Una difesa di una potenziale nazione autonoma sia nei confronti delle minacce esterne, sia nei confronti di quelle interne se si tiene conto non solo della rivoluzionata composizione sociale dell’Alauistan (i bruschi movimenti interni al paese hanno negli ultimi anni fatto prevalere la componente sunnita tra gli abitanti di Latakia), ma anche delle turbolenze dell’agosto scorso – sit-in, proteste e lungo le principali arterie autostradali azioni di disobbedienza civile senza autorizzazione – persino tra la popolazione sciita e in particolar modo tra gli sfollati di Fūʽa e Kafrayā infuriati col traballante governo per la mancata attenzione verso le due città; a cui faranno seguito dapprima altre manifestazioni tra le comunità sciite di Ḥimṣ, Aleppo e Latakia, e poi azioni di protesta («contro la corruzione» e contro la mancata erogazione dei servizi essenziali) da parte di alauiti di Latakia e di drusi di Suwaydā’. Azioni a dir poco inconsuete nei pur turbati territori siriani, il cui unico effetto è stato quello di spingere ancor di più Mosca nella ferrea difesa degli al-Asad, facendo balenare agli avversari del regime la minaccia che una destabilizzazione del governo comporti uno scontro con la superpotenza russa.
Va però riconosciuta alla Russia l’assoluta sincerità nella propria costante difesa degli al-Asad, al punto che il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha avuto modo di affermare pubblicamente: 

«La Russia non ha mai nascosto la sua cooperazione tecnico-militare con la Siria. Il nostro paese ha per lungo tempo fornito armi ed equipaggiamento militare alla Siria nell’ambito degli accordi bilaterali. In Siria ci sono anche consiglieri militari russi che provvedono all’addestramento del personale per gli armamenti in arrivo. E se saranno necessari ulteriori passi, siamo del tutto pronti a intraprenderli». 

Ma probabilmente non è solo l’affetto per il governo siriano a muovere le truppe moscovite.



2. Riempire il vuoto caotico lasciato dagli Usa per acquisire leadership e credibilità globale (con la compiacenza di Washington?)
Dimostrando grande sagacia, e un ottimo personale d’intelligence, il Presidente russo Vladimir Putin ha sintetizzato in un’occasione: «I nostri colleghi occidentali […] sono i padri del caos controllato» (da «Transcript of the final plenary meeting of the Valdai International Discussion Club’s XI session», 24/10/2014, President of Russia Official Website) provando in questo modo a spiegare la tattica statunitense di alimentare il caos in modo da indebolire a suon di furiose guerre reciproche i vari attori in campo. 

(fonte)
La Siria ne rappresenta il caso esemplare, ove persino una modica presenza del Dāʽiš viene considerata provvidenziale per carburare la confusione dell’area. Non è un caso, del resto, che il 75% delle missioni dei caccia statunitensi contro il Dāʽiš si sia conclusa senza aver smosso un solo granello di sabbia (da J. Klimas, «U.S. Bombers Hold Fire on Islamic State Targets amid Ground Intel Blackout» su «The Washington Times» del 31/05/2015) o la rivelazione secondo cui alcuni solerti analisti del Pentagono hanno esaltato oltre la loro reale portata le sconfitte patite dal terribile gruppo jihadista (da S. Harris e N. Youssef, «Exclusive: 50 Spies Say ISIS Intelligence Was Cooked» su «The Daily Beast» del 09/09/2015). 

È la consapevolezza che l’accordo sul nucleare iraniano altro non sia che il preludio di un progressivo allontanamento degli Stati Uniti dall’area (già da ora il comandante del Centcom, comandante Lloyd Austin, afferma che appena «quattro o cinque ribelli [siriani, ndr.] addestrati dagli americani sono pronti alla guerra», da S. Ackerman, «US Has Trained only “Four or Five” Syrian Fighters against Isis, Top General Testifies» su «The Guardian» del 16/09/2015) unito all’atteggiamento di equidistanza tra le potenze mediorientali (fragilissima visto, ad esempio, il conflitto irrisolto tra fautori e avversari della Fratellanza Musulmana) che lascia orfani – e soprattutto desiderosi di protezione, da qualunque parte essa arrivi - gli attori coinvolti nel pantano levantino. Tra i quali vanno annoverati anche i paesi europei, che grazie all’intervento russo
Immagine diffusa dal governo russo: caccia in azione in Siria.
Pubblicata sul Corriere della Sera del 06/10/2015
in Siria sono costretti a guardare a Mosca come un indispensabile baluardo nella lotta contro il terrorismo islamico e come unica forza in grado di arginare la massiccia immigrazione di profughi siriani; anche questa probabilmente una crisi (sottovalutata da Washington) frutto non casuale di una strategia destabilizzante architettata da una Turchia desiderosa di convincere l’Occidente della necessità di far affondare il regime siriano (sulla tanto sospetta quanto inedita incapacità della Turchia di scoraggiare i migranti mediorientali a raggiungere l’Europa si vedano A. Williamson, «False Flag Alert of Refugee Crisis?», Ron Paul Institute del 04/09/2015; e Y. Soulitis, «Refugee Flow Linked to Turkish Policy Shift» su «Ekathimerini» del 06/09/2015).
Inserendosi nel marasma siriano, quindi, la Russia ha modo di ergersi come interlocutore indispensabile e di caratura internazionale, facendo dimenticare un conflitto ucraino entro cui fino a pochi mesi fa l’Occidente sperava di confinare la potenza russa.

Nonostante ciò che in molti sono portati a pensare, non è da escludere che gli Stati Uniti abbiano maturato un certo compiacimento verso la rivitalizzazione moscovita: non solo il rischio che il «califfo» al-Baġdādī arrivasse a conquistare Damasco sarebbe stato uno smacco difficilmente
John Kerry
digeribile per un’opinione pubblica statunitense in procinto di entrare in campagna elettorale, ma l’annoso labirinto mediorientale potrebbe prima o poi portare ad un impantanamento di Mosca
. Proprio per questo il segretario di Stato Usa John Kerry ha salutato con bizzarro fervore le truppe che «vogliono combattere lo Stato Islamico» (da M. Gordon, E. Schmitt, «Russian Buildup in Syria Raises Questions on Role» sul «New York Times» del 19/09/2015); proprio per questo è stata lentamente messa in disparte la pressione statunitense verso Grecia, Bulgaria, Turchia e Iraq d’interdire il loro spazio aereo ai velivoli da trasporto russi; proprio per questo non è stata proposta alcuna sanzione (o reazione) atta a contrastare l’attivismo moscovita; proprio per questo è stato possibile un incontro tra Obama e Putin a margine dell’ultima Assemblea Generale dell’Onu; proprio per questo non si registrano grandi contrasti nei vari incontri bilaterali russo-americani degli ultimi mesi in cui pare arduo credere che la questione siriana non sia mai stata affrontata (si veda M. Crowley, «After Iran, U.S. Presses for Solutions in Syria», su «Politico» del 17/08/2015).

(fonte)


3. Porre un freno alle ambizioni di Teheran ed espandere la propria influenza nel Medio Oriente
Il desiderio di rimpiazzare la potenza statunitense nel ruolo di tutore del Medio Oriente ha per ora avuto come conseguenza un’auspicata rivitalizzazione dei rapporti col Presidente israeliano Netanyahu il quale, già in pesante insofferenza verso Washington, ha approfittato dell’occupazione moscovita dello spazio aereo solitamente adoperato dai jet israeliani (quelli che bombardano i trafficanti d’armi di Ḥizbullāh per paura che si creino tensioni con Gerusalemme nel confine del Golan) per precipitarsi da Putin il 21 settembre al fine di prevenire incidenti ma soprattutto al fine di capire quanto sia forte l’astio anti-iraniano del Presidente russo: tra gli scopi principali dell’intervento in Siria va infatti annoverata la paura che al-Asad consolidi troppo il suo legame con l’Iran rendendo Teheran un attore talmente influente nell’area mediorientale da arrivare ad insidiare gli interessi russi dal punto di vista strategico e soprattutto energetico.
Non bisogna dimenticare, infatti, quanto sia forte la dipendenza dell’economia russa dall’estrazione d’idrocarburi e di conseguenza quanto sia rilevante per Mosca disporre di una sua influenza nella zona, il Medio Oriente, che ospita circa il 40% delle riserve accertate di petrolio, il 41% delle riserve di gas naturale e il Canale di Hormuz che da solo controlla il 20% della movimentazione mondiale del gas (anche il Canale di Suez gode di una discreta importanza sotto questo aspetto).
Ora che l’Iran e gli Stati Uniti hanno trovato una rinnovata comunanza d’interessi, compito della Russia è evitare che questa alleanza sbocchi in una spietata concorrenza energetica – soprattutto sul mercato europeo post-crisi ucraina – nei confronti di Mosca

(fonte)


Finora la Russia cerca di evitare che Teheran si lasci galvanizzare da ambizioni energetiche e geopolitiche da un lato elargendogli tecnologia militare, e dall’altro coinvolgendolo nell’importante progetto di rendere l’Iran un paese-cerniera nell’avvio (consequenziale alla crisi ucraina) di una consolidata unione tra Russia e Cina (si veda «China and Russia lay Foundation for massive Economic Cooperation» su «Foreign Policy» del luglio 2015) sperando insomma che la tradizionale alleanza tra Mosca e nazioni sciite – complementare a quella tra Usa e nazioni sunnite – rimanga inalterata ai terremoti regionali, senza per questo negare alla Federazione russa la possibilità di espandere la propria influenza tra le nazioni arabe che si sentono tradite dal progressivo abbandono statunitense. In particolare l’Egitto, paese dove allo stretto legame anti-jihadista e anti-statunitense si accompagna la costruzione di una centrale nucleare da parte dei russi. Ma qualche passo lo si sta compiendo persino nello scongelare i rapporti con l’Arabia Saudita, se è vero che l’azienda di Stato russa Rosatom è in procinto di costruire venti impianti atomici nel paese: una vicenda da 100 miliardi di dollari a cui si vanno ad aggiungere i dieci miliardi che il fondo sovrano saudita Public Investment Fund si accinge a investire in Russia.

(fonte)


Con la Turchia le cose si mettono un po’ peggio, perché pur riconoscendo un notevole ampliamento dei rapporti commerciali tra i due paesi (l’interscambio è passato negli ultimi cinque anni da 38 a 100 miliardi di dollari) e la costruzione da parte dei russi della centrale atomica di Mersin, le pressioni statunitensi affinché Ankara garantisca all’Iran e non alla compagnia russa Gazprom il passaggio del metano in Europa hanno portato a crescenti difficoltà nella realizzazione del gasdotto Turkish Stream (si vedano «Turkey: Turkish Stream Negotiations Suspended», Stratfor, Situation Report su «Russia» del 31/07/2015 e «Talks on Turkish Stream on hold till November» su «Russia Today» del 03/08/2015) e persino al reclutamento di soldati turchi da spedire in Donbas al fianco dell’esercito ucraino (si veda L. Lulko, «Ukraine Launches Islamization by Creating a Muslim Battalion» su Pravda.ru del 03/08/2015) sebbene, più che dalle tensioni in Donbas, l’intervento moscovita in Medio Oriente si spiega anche come il tentativo di arginare un terrorismo islamico che spesso e volentieri arriva a insidiare il Caucaso russo.



4. E il Dāʽiš?

Nelle varie e spesso contraddittorie partite mediorientali, il Dāʽiš paradossalmente viene considerato da ben pochi attori come un nemico da abbattere: il tentativo delle potenze
Aleppo. Dal Corriere della Sera del 20/09/2015
coinvolte risulta semmai quello di muoverlo a proprio piacimento, cercando di arginarlo solo quando arriva a toccare i propri interessi vista anche l’assenza di vere alternative che possano riappacificare le stremate popolazioni dell’area
. Rosa Brooks, professoressa di diritto a Georgetown nonché consulente al Pentagono e persona affine alle posizioni di Obama arriva a fare una tragica quanto grottesca previsione: 

«Se lo Stato Islamico continua a decapitare gente e se noi non siamo capaci di distruggerlo, forse ci stancheremo di combatterlo e decideremo di stringere accordi con esso. Passerà poi qualche decennio ed ecco che l’Is avrà un seggio all’Onu – se l’Onu esisterà ancora […]. E tutte quelle terribili atrocità verranno cortesemente ignorate».

La geopolitica non solo sorprende di giorno in giorno, ma conosce già dei precedenti analoghi: chi avrebbe immaginato, per esempio, che la Germania responsabile della Shoah sarebbe tornata nel giro di pochi anni a giocare un ruolo di attore riconosciuto? Solo la conclusione affida qualche speranza:

«Se smettiamo di bombardare lo Stato Islamico, forse potrà contenere se stesso più rapidamente di quanto possiamo farlo noi. Oppure, volendo essere meno deprimenti, i capi dell’Is scopriranno, come tanti brutali regimi prima di loro, che le atrocità generano disordine interno e ribellione» (da R. Brooks, «Making a State by Iron and Blood» su «Foreign Policy» del 19/08/2015).

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